15 set 2008

Il Silenzio del Sud e... mormorii vari

Buona domenica a tutti.
Di seguito l'editoriale uscito oggi sul Corriere che l'amico Duccio mi ha invitato a leggere e commentare. Lo riporto per sottoporlo all'attenzione ed alla lettura di tutti. Di seguito, alcuni commenti caro Duccio, al quale spero vorrai contribuire come tutti gli amici di questa newsletter. Emilia

Il silenzio del sud, di Ernesto Galli Della Loggia


«Esiste una questione meridionale e nella scuola italiana? Temo proprio di sì (…). L'Europa non boccia l'Italia e i suoi quindicenni (…) ma boccia il Sud e le Isole, assai indietro rispetto alla media europea mente il Centronord la supera nettamente. (…) Le fredde statistiche rivelano un fenomeno inedito: un abbassamento della complessiva qualità scolastica nel Sud. Nel passato, in piena "questione meridionale" generale, un liceo o una scuola elementare di Napoli aveva in genere un livello analogo alle consorelle milanesi. Oggi non è più così». A parlare in questo modo non è il ministro Gelmini, il ministro della «solita destra italiana». No. E' un esponente di antica data della sinistra come Luigi Berlinguer, tra l'altro un ex ministro dell'Istruzione, in un articolo di rara onestà intellettuale pubblicato sull'Unità del 29 agosto scorso. Articolo che però, abbastanza sorprendentemente, non ha provocato neppure la più blanda protesta da parte di quella legione di politici, professori e intellettuali che invece solo pochi giorni prima si erano stracciati le vesti per le cose più o meno analoghe dette dal responsabile attuale dell'Istruzione, il ministro Gelmini di cui sopra, seppellita sotto una valanga di vituperi per il suo supposto razzismo antimeridionale. Il fatto è che dovremmo prendere atto tutti, una buona volta, di alcuni dati di fatto. Non solo di quelli ormai notissimi delle rilevazioni Ocse-Pisa, ma anche, per esempio, della circostanza, che negli ultimi 7-8 anni i migliori piazzamenti nelle varie olimpiadi di matematica, informatica, fisica o nei certami di latino, ecc. organizzati internazionalmente, li hanno ottenuti quasi sempre studenti dell'Italia settentrionale. Così come dovremmo chiederci perché mai, di fronte a questi risultati, accade però che la maggiore concentrazione dei 100 e lode all'esame di maturità delle scuole italiane si abbia proprio in Calabria e in Puglia, o che le più alte percentuali di punteggi massimi si registrino in una scuola di Crotone (ben 34 «100 e lode »!) di Reggio Calabria (28) e di Cosenza (21), mentre i Licei Mamiani e Tasso di Roma si devono accontentare di appena due, e rispettivamente un solo, 100 e lode. Geni in erba a Crotone e geni incompresi a Friburgo o ad Amsterdam? Andiamo! E forse dovremmo pure chiederci come mai il Friuli, regione che pure fa segnare la percentuale di 100 e lode più bassa fra tutte le regioni d'Italia, veda invece poi i suoi studenti, nell'ultimo quinquennio, fare incetta di premi nelle più varie competizioni.
E' fin troppo evidente che questo insieme di dati tira pesantemente in ballo non solo la realtà scolastica ma l'intera realtà sociale del Mezzogiorno. Ne parla del resto, senza peli sulla lingua, lo stesso Berlinguer nell'articolo citato: «Gli enti locali nel Centro- nord hanno fatto in questi decenni cose straordinarie per la scuola, egli scrive (…), nel Sud tutto questo o è episodico o non c'è. Nel Centro-nord la scuola è tema che influenza le scelte dell'elettorato locale, che stimola così gli amministratori. Al Sud o è episodico o non c'è». Insomma la società meridionale presta scarsa o nulla attenzione alla sua scuola, alla qualità dell'insegnamento, perché evidentemente non le considera cose molto importanti.
Le famiglie, più che alla sostanza sembrano guardare all'apparenza dei «bei voti» comunque ottenuti. E quando la verità comincia a venir fuori — com'è per l'appunto accaduto con la sacrosanta denuncia del ministro Gelmini — allora la reazione generalizzata è quella del perbenismo indignato, del ridicolissimo «ma come!? noi che abbiamo avuto Croce e Pirandello!»: nella sostanza, cioè, è il fingere di non vedere, di non capire. E' il silenzio.
Un sostanziale silenzio sulle condizioni del proprio sistema scolastico che appare come un aspetto del più generale silenzio del Mezzogiorno. Un Mezzogiorno che ormai da anni ha cessato di parlare di se stesso e dei suoi mali, che da anni ha messo volontariamente in soffitta la «questione meridionale», che sembra ormai rassegnato a fingere una normalità da cui invece è sempre più lontano. E così la spazzatura copre Napoli, la scuola del Sud è quella che abbiamo visto, intere regioni sono sotto il dominio della delinquenza, in molti centri l'acqua ancor oggi viene erogata poche ore al giorno, i servizi pubblici (a cominciare dai treni) sono in condizioni pietose, il sistema sanitario è quasi sempre allo stremo e di pessima qualità, ma il Sud resta muto, non ha più una voce che dica di lui. Unica e isolata risuona la nota dissonante di un pugno di scrittori e di saggisti coraggiosi come Mario Desiati, Marco Demarco, Gaetano Cappelli, Adolfo Scotto di Luzio di cui sta per uscire il bellissimo «Napoli dai molti tradimenti». Sì, l'opinione pubblica meridionale, specie quella del Mezzogiorno continentale, nel suo complesso latita, è assente. Mai che essa metta sotto esame, e poi se del caso sotto accusa, i suoi gruppi dirigenti locali di destra o di sinistra che siano; mai che crei movimenti, associazioni, giornali, che agitino i temi della propria condizione negativa; mai che da essa vengano analisi sincere, e magari (perché no?) autocritiche, dello stato delle cose e dei motivi perché esse stanno al modo come stanno.
Soprattutto sorprendente e significativo (eppure si trattava della scuola, dell'istruzione, santo iddio!) è apparso nei giorni scorsi il silenzio — o, peggio, l'adesione alla protesta perbenistico-sciovinista — da parte di tanti intellettuali. E' stata la conferma di un dato da tempo sotto gli occhi di tutti: che proprio la cultura meridionale, ormai, non si sente più tenuta a rappresentare quella coscienza polemicamente e analiticamente esploratrice della propria società, a svolgere quella funzione critica, che pure dall'Unità in avanti avevano costituito un tratto decisivo della sua identità. In questo silenzio e con questo silenzio degli intellettuali la «questione meridionale» mette davvero fine alla sua storia. Abituati a essere portatori di istanze di critica e di cambiamento, abituati cioè a svolgere un ruolo socio-culturale oggettivamente di opposizione, e dunque, almeno in questo dopoguerra, orientati tradizionalmente a sinistra, gli intellettuali meridionali si direbbe che siano rimasti vittime della rivoluzione politica verificatasi nel Mezzogiorno negli ultimi vent'anni. La vittoria della sinistra in tanti comuni e in tante regioni, infatti, se per alcuni di essi ha voluto dire l'arruolamento in questo o quell'organismo pubblico, e dunque l'assorbimento puro e semplice nel potere, per molti di più, per la stragrande maggioranza, ha significato essere privati di una potenzialità alternativa essenziale, di una sponda decisiva per il proprio ragionare e il proprio dire d'opposizione.
Dopo la vittoria della sinistra essere «contro» ha rischiato di significare qualcosa di ben diverso che per il passato: ed è stato un rischio che quasi nessuno si è sentito di correre.
Peccato però che evitare i rischi non significa in alcun modo esorcizzare i pericoli: a cominciare, in questo caso, dal pericolo di un declino inarrestabile di cui sono testimonianza proprio le brillantissime pagelle degli studenti del Mezzogiorno.
(14 settembre 2008)


Caro Duccio
ti confesso che a leggere e rileggere faccio fatica a comprendere il punto. Pagelle dopate? Università traformate in esamifici? Intellettuali latitanti? La questione, con tutto il rispetto per Della Loggia, che cita qua e là Berlinguer e la Gelmini, mi sembra posta in maniera speculativa e riduttiva.

La mia opinione - modestissima e da autoctona – è che il sistema scolastico meridionale che presta così poca attenzione all'istruzione ed all'innovazione tecnologica, salvo poi compensare sopravvalutando le performance dei suoi allievi, non è che la punta dell'iceberg di una dolorosa questione ascrivibile alla storica mancanza di una cultura della collettività che ha fatto capolino in maniera sporadica e quasi mai indipendente, soppiantata da un'altra cultura che premia comportamenti fortemente individualisti e che il degenerare del sistema di valori ha trasformato in un arido culto della superficie.
Porto la mia esperienza che seppure anacronistica credo possa essere condivisa da molti miei coetanei meridionali. Ho studiato in un piccolo villaggio che raccoglie l'utenza scolastica di 15 località della provincia di Salerno: significa poche sezioni, docenti prevalentemente locali e scarso dinamismo intellettuale. Le scuole di città – Salerno è a poco meno o poco più di 1 aura di autobus a seconda del comune costiero di riferimento – erano viste con quel misto di distacco e abnegazione, tipico delle mentalità provinciali.
Non avevamo i computer – ma credo che negli anni 90 fossero poche le scuole a poterselo permettere – indossavamo il grembiule nero, tremavamo quando il professore scorreva il registro per la quotidiana ronda. Non occupavamo o tentavano occupazioni destinate ad esaurirsi nel giro di una settimana perchè non capivamo il perché dell'occupazione dei nostri colleghi urbani. Non autogestivamo corsi di cinema e teatro. Attività extrascolastiche che potevamo esercitare il diritto di coltivare solo a patto che alla quotidiana ronda di interrogazioni non saltasse fuori che avevamo trascurato il ditirambo giambico.
Tutto quello che ho appreso dal sistema scolastico di cui sono un prodotto standard può essere riassunto nella consapevolezza di essere indietro anni luce e di dovermi dare una mossa e non come collettività, ma come l'uomo delle caverne doveva escogitare qualcosa di funzionale per procacciarsi la sua bella bistecchina.
Dopo la maturità la cantilena era: "Frequenta un piccolo ateneo del centro nord – ai miei tempi eranomolto di moda Urbino e Camerino, frequentate dai figli dei potestà della costiera – perché, dicevano "lì non sarai un numero, sarà più facile emergere". Ma come me, molti sono confluiti in uno degli atenei del capoluogo regionale, dove 4 lettere dell'alfabeto stipavano in un cinema 400 matricole del primo corso obbligatorio, gli esami orali prevedevano calendari anche di 2 settimane e , a volte, solo quando ti andavi a sedere davanti al professore per sostenere l'orale, riuscivi finalmente a guardarlo in faccia. I collegi di rappresentanza studentesca, a destra e a sinistra cattolici compresi, erano club di lusso per quelli che chiamavamo "chiattilli", alias i fighetti della situazione.
Alla faccia della formazione e dell'istruzione. Alla faccia dell'innovazione tecnologica. Alla faccia del dissertiamo della questione meridionale. Il messaggio neanche troppo subliminale era "Il sistema ti offre un'opportunità – sta a te saperla cogliere." Sembravano covate di conigli, tutti intenti a lottare per la sopravvivenza intellettuale. Molti di quelli che conosco sono dovuti emigrare, non tanto per inseguire la migliore opportunità o l'opportunismo migliorativo della propria condizione, quanto per smettere paradossalmente di affannarsi per ottenere il minimo, per ottimizzare l'investimento e la resa.
La questione non è "Ma guarda! Al contrario delle statistiche, il sistema scolastico meridionale fa acqua da tutte le parti! E' scandaloso che gli intellettuali meridionali non reagiscano!!!!" E' un'affermazione speculativa, mi permetto dire, perché è la meno di quello che un cittadino meridionale si deve sciroppare se vuole continuare a vivere nella sua città. Dove l'intero sistema sociale – tranne rare isole felici che non so a quanto siano accessibili - non ha rispetto dell'infanzia, della persona, della vita. Non include nella sua teoria l'approccio al futuro. E' un leviatano mosso per volontà di gruppi di interesse, a loro volta regolati da comportamenti clientelari, destinato ad implodere non senza sparare metastasii. Anche nel finto-puritano Settentrione dove l'etica del lavoro e la cultura collettiva del servizio è tradizione storica.
Il sistema scolastico ed universitario meridionale che ho sperimentato riflette una cultura ed una società che non ha fiducia, che si è esaurita, che non contempla nel suo vocabolario la parola "futuro". Buona parte dei professori che ho avuto dedicavano tempo a spronarci, ad affamarci, invitandoci a trovare il nostro modo di interpretare testi e contesti, per non essere annientati, ci dicevano, da aule universitarie affollate di diplomati di città, di ogni dove, più istruiti, più stimolati, più nutriti intellettualmente.

E noi bevevamo. Ogni singola parola che ci veniva detta, consapevoli poiché macchiati geneticamente dal gene del fatalismo, che a voler imparare la parola "futuro" l'unica associazione possibile spesso rimandava al verbo "partire". Della mia classe del liceo, gli unici ad essere rimasti proseguendo i loro studi, sono quelli che avevano una posizione garantita dal sistema dei gruppi di interesse. Tre persone. Tre persone su venticinque.
Con questo non intendo fare l'agiografia del sistema, attenzione: ne conosco parecchi di dottori e dottoresse che stentano a parlare l'Italiano, sono privi di qualsiasi passione intellettuale o peggio, vantano conoscenze approssimative e nozionistiche "made in Google". Ma ne conosco di meridionali come di settentrionali.
Come conosco in tutto lo stivale coetanei che per forza o per scelta non hanno il titolo di dottore ma hanno molto da insegnare a me e, senza presunzione, ad altri come me che l'università hanno avuto l'opportunità di poterla frequentare.

Il problema non è ascrivibile al sistema scuola. La complessa questione culturale e sociale che attraversa lo stivale e trova in molti settori del meridione una esemplare cassa di risonanza è la sfiducia e il nichilismo che infetta i giovani e che al Sud non trova diversivi o compensazioni perché i poteri forti hanno tutto l'interesse a perdurare lo status quo, eliminando la possibilità di confronto e dibattito tra i cittadini ridotti ad una specie di stato di trance da un continuo stato di emergenza.