9 lug 2007

Apri gli occhi

Era il treno forse. Preso milioni di volte. Sempre la stessa destinazione.
Era l'8 luglio 2005. Cambio a Napoli Centrale, destinazione Salerno e, da lì, costieravitamia che mi avrebbe aperto le braccia sotto un cielo di stelle, il profumo dei gelsomini ed il mormorio della risacca.
Eppure è stato un viaggio dolentissimo. E' arrivata così all'improvviso, in prossimità di Torre del Greco, con il ritmo incessante di un brano dei 99posse, un'onda d'urto violenta che mi ha fatto desiderare con tutte le forze che quel treno andasse nelal direzione opposta. Troppi ricordi, troppo male. Non ero pronta per tornare. Mancavo da casa dei miei da Pasqua e, prima ancora, da Natale. Brevi permanenze in cui per sopravvivere avevo dovuto anestetizzarmi in qualche modo: il lavoro, il lavoro, e ancora una volta, solo il lavoro. A maggio avevo sperimentato per la prima volta l'annientamento di 72 ore incessantemente davanti ad uno schermo a volermi dimenticare dove ero e perchè. Il tempo mi ripetevo, avrebbe sistemato tutto prima o poi, il tempo e lentamente non ci avrei più pensato.
Il giorno successivo sarei andata al mare con gli amici, i vecchi ed i nuovi, a sperimentare che significa riappropriarsi di uno spazio sempre condiviso, a ritornare a camminare su quella che per me era una gamba sola. E via andare.
Non mi guardavo allo specchio mai. C'ero e c'ero sempre per qualcun altro. Non c'ero per me. La mia porta era sempre chiusa se ero io a bussare.
Un breve salto all'Acquachiara per tentare di trovare un angolo di spiaggia libera e poi, date le contingenze, il ritorno alla Torre Normanna. Una gonna nuova e della frutta. Io, Nene, Paolo, Carmen, Anna, Pino e Imma.
Si ride, si scherza, ci si racconta. Io ero intorpidita, c'ero e non c'ero, mi sentivo un fantasma.
Mangio un frutto, non sento niente. Vado sul bagnasciuga e raggiungo gli altri. Sento la nausea.
Dico a Nene che ho bisogno di andare in su perchè non mi sento molto bene. Mi accompagnano lei e Carmen. Vado alla toilette di servizio proprio sul lungomare a quattro passi dalla spiaggia. Provo a vomitare. Mi avrà fatto male il frutto. Ma non sentivo la classica nausea da vomito. Non sentivo niente, assolutamente niente.
Mi siedo sul bordo di un'aiuola del marciapiede. Mi chiedono come mi sento, mi dicono di restare tranquilla. Io non sento nulla. Nulla che conosco. Provo a rispondere, non riesco ad articolare le parole, la mia faccia non colalbora, non riesco a muovere la bocca. E poi le mani.
Si toccano l'una con l'altra e non sentono il reciproco contatto. Non resco a muovere consapevolemente le dita. Ho paura. "Sto andando" mi dico dentro di me "sto andando chissà dove e questa carcassa non mi perseguiterà più". Ricordo l'umiliazione. Di non controllarmi davanti ai miei amici. Di sottoporli a questo spettacolo furioso e indegno che nemmeno io riesco a prevedere.
E poi il vuoto. E poi mio padre. Un breve tragitto sullo scooter dove resto in equilibrio come un sacco di patate. E poi un lettino. Il buio. Ad intermittenza. "Non voglio, non voglio, chiudiamola qui." Chiunque mi si avvicinava non lo sentivo. E se lo sentivo mi faceva scalciare dalla rabbia. Di nuovo il buio. Tutto esplodeva dentro di me ed io non sentivo niente. Qualcosa sulla punta delle dita o sotto la pianta del piede mi perforava come una lama spinta con forza nelle viscere. Un dolore acuto, che arrivava con un fischio fortissimo, il fischio del treno, lanciato sui binari a strigliare la quiete dell'immobile paesaggio notturno.
Di nuovo il buio. Un altro lettino, il contorno di un volto giovane, maschile, abbronzato.
"Dio mio no, non ha importanza, non ne posso davvero più, voglio il silenzio"
E niente ondeggiava, niente pesava, niente faceva male.
Quando è buio, è buio. Immobile. Perfetto. Assoluto. Disperato.
Qualcosa sulle dita di una mano, qualcosa sotto i piedi. Con ferocia la luce con il suo calore aveva sbranato le tenebre ed ero lì ditesa e davanti avevo Nene ed ero di nuovo io che avevo paura, che non mi controllavo, che non vedevo. "Che mi sta succedendo?" non le avevo mai pensate quelle parole ed erano venute fuori da sole. Naturalmente, senza forzare la faccia a convincerla che andava tutto bene, a pregare i muscoli di assecondare l'input che partiva lucido dal mio cervello.
"Come ti chiami?" "Come ti senti?" recitavano le Tersicore a frequenze che non ricordo e ogni volta era il piano, il pianto della nascita, il pianto dell'impotenza che non vorrebbe ma ti chiede aiuto perchè...non può. Nene mi dice solo di stare tranquilla ed io dico "Ti voglio bene". Penso "Forse non ritorno. Magari nel buoi scopro di trovarmi bene, ma tu lo devi sapere che ti voglio bene perchè non te l'ho mai detto come te lo sto dicendo adesso, e devi essere forte, fortissima anche se il tuo papà non c'è più". Di nuovo il buio. E poi scosse, scosse da ogni lato. Brevi, intermiottenti, fastidiose, ho freddo, ho freddo, batto i denti, tremo. E ritorno sui pattini verdi, sento il profumo della casa di mia nonna, ricado nel cortile, mi asciugo le lacrime sul grembiule nero delle scuole medie, chiudo gli occhi e lancio un penny in Trafalgar sq. esprimendo IL desiderio. Scosse, una dietro l'altra e mi ricordo che quella è la mia vita. I pattini verdi che sembravano usciti dal lego, così diversi da quelli che vedevo, gli occhi verdi della mia nonna, il bruciore agli occhi dopo aver pianto ore, il male, il male, il male, il male, il male, il mare.
Quella era la mia vita e non avevo visto l'attimo in cui IL desiderio era diventato realtà.
Apro gli occhi. Una finestra lunga e bianca proietta l'immagine di un golfo notturno.
Ma dove sono?
Che ore sono?
Sono a Bologna...no, c'è il mare, sono a Viareggio.
Sono a Bologna, sono a Bologna, sono a..."il treno ES Italia 9943 diretto a Milano Centrale, effettueà fermate intermedie a Roma Termini, Firenze Santa Maria Novella, Bologna."
Sono a Napoli, io non me lo ricordo che ho preso il treno, io sono venuta giù dai miei. L'ufficio. Devo chiamare in ufficio. Ma che ore sono? Ho freddo. Devo trovare una coperta. Mi sollevo. Mi sembra di sollevare un macigno. Non riesco a tenermi seduta. Ho freddo, ho freddo. Davanti a me non vedo niente, vedo solo il Golfo alla finestra.
Le mani. Le mani rispondono. Due aghi nelle braccia attaccati a sottili tubicini trasparenti. Ecco le scosse. Ma dove sono, mio dio dove sono. Ho freddo. Ho freddo. Una donna. Due. Vestite di bianco. Come la cornice sul Golfo di notte. "Perchè ti sei alzata?"
"Non lo so. Ho freddo. Non lo so."
"Come ti chiami?
"Emilia"
"Quanti anni hai Emilia?"
"Ne ho compiuti 28 due settimane fa"
"Di dove sei?"
"Sono di Maiori ma vivo qui a bologna da 2 anni"
"Emilia lo sai dove sei?"
"Ho freddo. Dove sono?"
"Sei a Salerno."
"Ho freddo"

Il mattino seguente mi sembrava di risorgere da un abisso immobile. Ero stanca, ed ero confusa.
Avevo realizzato di essere in ospedale - alquanto intuitivo il cartello con l'insegna Stroke. Ma non sapevo perchè e che giorno era, dove era la mia famiglia.
Rivedo mia madre, mio padre e mio fratello. Mi guardano con una strana espressione sui volti che non riesco ad iterpretare. Poi lo capisco, è la paura. La loro come la mia. Cerco di sorridere, di tranquillizzarli.
"Va tutto bene, sto benissimo, sto bene, mi avrà fatto male qualcosa che ho mangiato. Andiamo a casa?" pensavo. Che è successo. Ditemi che è successo. Voglio sapere che è successo.

4 lug 2007

Polemòs, o l'arte dell'urlare sterile

Dovrei fermarmi un attimo e reiflettere. Scaramanticamente non sono brava a difendermi dall'ingiustizia e davvero nel tempo sono diventata intollerante a chi alza la voce e polemizza.
Il punto è che sto facendo fatica a trovare un buon motivo per discutere - se chiedo, chiedo nel tono sbagliato. Se la mia riposta non corrisponde alle attese, sono nervosa.

Mi sembra di avere di nuovo a che fare con mio padre: in ogni caso, per qualsiasi cosa, è capace di spostare il punto di una discussione con vaga tendenza ad attribuirti parole che non hai mai pronunciato nè pensato di pronunciare. Non conta quello che volevi dire tu, ma quello che percepisce il tuo interlocutore.

Avendo sempre subito questo meccanisno in cui se mi permetto - e dio bono oggi sono in grado di permettermi tutto ciò che mi sembra lecito - di fare un'osservazione e l'altra parte non gradisce trova il modo di aggredire pur di non rispondere, ho sempre cercato di discutere in modo che le reciproche posizioni, la mia e quella dell'interlocutore, fossero in discussione in funzione di un cambiamento a vantaggio di entrambi.

Non temere, non si tratta di coraggio, anzi. Forse di poca energia, poco tempo da perdere, in ogni caso non reggo la polemica. Ma che significa poi polemizzare? Stessa radice di polemòs, guerra.

Vediamo cosa trovo sul fido dizionario:
"Usare la polemica nel rapporto di relazione implica nell'intenzione di partenza una situazione di potere, dove il polemizzando non desidera raggiungere un accordo comune ma bensì vuole imporre la propria idea sull'altro, canuffandola come discussione.
La polemica nella comunicazione tra adulti è sempre negativa poichè rigira su circoli viziosi senza apportare nuove posizioni reciproche. Denote conflitti interiori non risolti e poca autostima che invece vengono attribuiti all'altro.
Al contrario nell'adolescenza la polemica serve ad uscire lentamente da un raporto di dipendenza dai genitori , in quanto causa una rottura degli schemi usuali di potere (il genitore sul figlio) e serve per rafforzare quast'ultimo nella sua identità. Lo scontro, seppure nel circolo vizioso, provoca nell'adolescente la possibilità di percorrere e ripercorrere un processo fino alla piena presa di coscienza adulta. E' lecito applicare coscientemente la polemica quando si promuove un processo di crescita inattuabile in altri modi; infatti è sempre da tenere in considerazione che la polemica causa nell'altro un irrigidimento ed una chiusura ulteriore con tempi che diventano molto più lunghi per la soluzione che si desidera raggiungere."

Fantastico. Qaulche suggerimento su come uscire dal circolo vizioso e neutralizzare il polemizzando? Sì perchè ho riscontrato che a far notare all'altro che si sta cadendo in una polemica, non cambia assolutaemnte nulla, anzi, l'interlocutore si infiamma ancora di più.