7 set 2007

Perchè il sublime, si sa, è una risata in faccia alla morte

Non ho addosso nemmeno un centimetro di pelle.
E' come se tutto, nel male e nel bene, risuonasse di un fragore e di un potere che non gli appartiene.
Mi dicono tutti che sono un fascio di nervi. Eppure io non lo sento.
Mi dicono che sono inquieta, che mangio le loro facce ed io non vesto questa tensione...semplicemente, perchè sono pronta a scattare.
Lo so, chi l'avrebbe mai detto.
Emilia che è capace di alzare la voce per qualcosa che non sia la gioia o la disperazione.
Ma la rabbia. Se dovessi immaginare la mia nuova pelle, vorrei essere ricoperta da uno spesso strato di cinismo e ancora sto qui a chiedermi perchè non lo sono.

Elucubrazioni mentali a parte, la storia che vorrei ricordare raccontandola, ha qualcosa di straordinario. Non è facile perchè non riguarda me e, checchè se ne dica, è più facile raccontare sè stessi degli altri. Dunque, la vicenda riguarda un personaggio quasi archetipico -al punto che lo battezzerò Talmud - ed una figura quasi mitologica, che per ambivalenze e somiglianze chiameremo Penelope.

Talmud incontra Penelope in un modo ed in un luogo banale. Da subito la sua figura tautologica, dalla smagliante corazza di postmoderna miscela di cinismo ed ironia colpisce Penelope, distogliendola dalla tessitura della sua eterna tela.
Talmud è di questo mondo, adopera parole come "smart" e "madame", si professa un fedele della finanza al consumo, segue un corso da sommelier professionista, si incanta davanti ai sandali da cocktail e, nella coriacea apparenza di spigliata avvenenza, porta inciso sullo scudo "homo homini lupus".
La nostra Penelope invece è di pasta buona. Come quella canzone che ascoltavano i suoi genitori, è convinta che il "futuro sia un'astronave che non ha tempo nè pietà"; si vede mutare di forma, come una pietra grezza che sta lentamente portando alla luce la linea impressa dal divino, tesse e disfa la tela del tempo in attesa che il mare le restituisca il suo Ulisse un pò degregoriano, "andato al mondo e non ancora tornato".
Incuriosita, Penelope decide di indagare le referenza tra la finanza al consumo e la tela del tempo. Tre incontri, come un ciclodi conferenze, nei quali il prode Talmud, dotato di corredo accademico, alterna cinismo a pigrizia, manifestazioni di indolenza e attestati di edonismo, sempre con compassato autocontrollo.
Tra un metodo Montecarlo e una "r" del VAN, Penelope adopera i suoi ferri del mestiere per sfiorare la corazza del Talmud, sentire di che tessuto è fatta, annusare il corredo di manuali e titoli...e quasi si confonde tra quelle formule dove, a forza, il nostro Talmud infila racconti di infanzia e desideri futuri, stupisce di fronte alla necessità del divino di ingollare più cocktail per trovare una dimensione umana...e sorride enigmatica.
Decide di sovvertire la regola di ateneo e con coraggio, osa sfidare il divino Talmud ad un confronto alla pari, lontano dalla programmazione finanziaria ma anche dalla tana dei Proci. Come il mago di Oz di fronte all'uomo di latta, Talmud vacilla, indietreggia, pone la distanza del suo infallibile metro di giudizio, la rituale fraquenza sabbatica.
Penelope intanto tesse e disfa la tela - la vela di una nave, la rete di un caicco, il peplo di una culla. E Talmud, lentamente si allontana, si mischia con i Proci, la sua voce si allinea a quella del coro. Ma tutto questo, Talmud ancora non lo sa.