30 nov 2007

Non voglio perdere la meraviglia

“Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. Quando guardi a lungo nell'abisso, anche l'abisso guarda dentro di te.”

(F. W. Nietzsche)

Può sembrare scontato. Almeno a me sembrava così.
Piove e sei triste e allora credi che stia piovendo anche dentro di te.
Passi del tempo con persone nere, abissi incartati da gabbiani ed è tempo contingente, tempo che avresti passato altrimenti e, dopo un po’, senti qualcosa che brucia sulla pelle. E non capisci.

Ti sembra che la loro oscurità ti sia rimasta appiccicata. Come una specie di catrame che ti ha sporcato il palmo quando gli hai stretto la mano. Non è possibile, ti dici. E confondi la loro macchia con la tua, come se fosse transitiva, come se fosse naturale.
Però la pelle ti brucia e tu non lo sopporti. La doccia dura un minuto o anni, dipende dall’intensità e dalla durata dell’esposizione. Non è questo il punto.

E’ un fatto ancestrale. Come si dice… è una questione di qualità o una formalità. Ogni volta, ho dubitato. Ogni volta ho temuto troppo o troppo poco. Che la macchia dell’altro fosse anche la mia, che mi appartenesse per il solo fatto di riconoscerla. E giù ad arrovellarmi, su quanto sono stata cieca, su quanto sono stat sorda, su come ho fatto a non capire che se il male mi mostra i denti nell’esercizio del potere, in quell’universo non è sempre vero che ci sono anche io. Non si tratta di un’opzione. Non è il frutto di una scelta. Non è. Sono stata una funzione in un delirio di finzione.

Ho imparato che tutti nella vita abbiamo indossato o ci capiterà di indossare delle maschere ma che al di sotto di queste, non sempre c’è una “faccia”. Per alcuni la maschera mutevole all’occasione è la faccia.

Quelli che ne hanno fatto un mestiere hanno una grande responsabilità.
Gli attori affidano al proprio volto la leggibilità per il pubblico delle emozioni del personaggio. Una volta ho letto da qualche parte che nelle scuole di recitazione insegnano agli allievi ad osservare attentamente il loro volto durante l’interpretazione allo scopo di ottenere una totale adesione al personaggio interpretato. Bisogna imporsi la faccia del ruolo, anche nel più piccolo gesto, in ogni respiro. E’ come se…diventassero acqua che accoglie sempre e solo la forma di ciò che la contiene, come se l’attore fosse una specie si adesivo capace di catturare, ripetere, l’anima di chi deve impersonare. E’ buffo, è…innaturale, è impossibile. E’ un mostro.

Ma perché faccio questo sproloquio? Diverse persone che conosco mi hanno chiesto se facessi recitazione. Una addirittura è arrivata a dirmi – Saresti perfetta, tu devi fare teatro, ma io ne sarei geloso.
E io? Claro…giù a tafazzarmi di domande. Un mare di domande in tempesta attorno ad un nucleo solido che non si smuove mai. Espressività. Sì, ma la mia, non quella dell’altro. Eppure sfido chiunque a negare di aver incontrato qualcuno che si plasmasse alle nostre abitudini, ai nostri gusti, ai nostri modi di fare. E ancora, da adolescenti non avete mai fatto qualcosa sapendo di farla solo per compiacere un’altra persona? Più raro incontrare chi ci sente così nel profondo da aderire superficialmente a qualcosa che ci confonde, perché ci sembra un miracolo. Il miracolo del riconoscimento. Ma questa è un’altra storia.

Le maschere si spaccano e non fanno male. Anzi, è una liberazione. Scruto l’abisso e l’abisso scruta me – io non ho paura. Il veleno dei mostri dall’abisso non mi ha contagiata. Se l’ ha fatto, lode al mio sistema immunitario o alla mia incoscienza che nonostante tutto mi fanno stare con le mani aperte davanti al miracolo della vita, sempre. Per me è stato così. Io non riesco a perdere la meraviglia. Il catrame resta un po’ sul palmo della mano…poi se ne va. Stimola le cellule ad indurire il derma, a renderlo più impenetrabile senza intaccare la permeabilità. Il catrame non mi lascia aloni nel profondo. Lascio che i miei pori respirino e sudino. Non riesco e non voglio pagare il prezzo di indossare i guanti, sarebbe troppo alto. Nelle mani, sulla pelle, quello che perderei – l’emozione, l’ispirazione, la gioia di essere – sarebbe davvero troppo rispetto a quello che risparmierei. E’ così che si diventa il mostro dal quale si fugge. Copiandone le mosse, indossandone la maschera, giocando la partita con le sue regole. Ma quelle regole non sono le mie e non c’è partita se non condividi le regole del gioco. Le mie regole…mi piacciono di più. Rischiano di più. Spaventano di più. Ma le mie regole sono le uniche con le quali valga la pena di giocare. Regole…più che regole, direi necessità. Vivere. Scegliere. Non barare. Lealtà per lealtà. Amore per amore. Coraggio per coraggio. Reciprocità.

E su queste per istinto e per natura non ho mai avuto dubbi. Ho imparato a credermi.
Altra necessità. Proteggere. Ma proteggere la meraviglia, questo lo sto ancora imparando e lo imparo lentamente.

14 nov 2007

Usi a picchiar mentendo

Carolina aveva 3 anni quando decise che voleva crescere.
Era una bambina timida che amava colorare. Ed era curiosa di tutto.
Non aveva compagne di giochi. Stava sempre con il mento all’insù sforzandosi di guardare in volto le persone che voleva bene. La nonna. Il nonno. La mamma. Il papà.
Si sentiva una pulce in un mondo di titani.

Lo sai che i papaveri son alti, alti, alti , sei nata paperina: che cosa ci vuoi far?

Carolina amava fantasticare sulla forma delle nuvole e delle montagne.
Un giorno crescerò e anche io toccherò le nuvole. Ci monterò sopra e volerò come i gabbiani.
E il gioco preferito di Carolina era saltare sul lettone di sua nonna.
Il momento della spinta, l’abbandono del cadere sulle proprie gambe e ridarsi la spinta ancora una volta. Delle gran sudate e poi il rimbrotto della nonna – Carolina scendi dal letto che ti fai male!

Carolina montava su una sedia per imitare sua nonna quando lavava i piatti.
Carolina sorride tra le braccia di una cugina di qualche anno più grande che le fa sentire più vicino alla mano della mamma che dormiva sempre o era sempre in treno.

Una volta Carolina aveva anche il papà – un signore altissimo con i baffi che ascoltava sempre la radio e odorava di fumo e di vino.
Poi, i baffi sparirono ed il papà di Carolina diventò un gigante sempre arrabbiato che non sorrideva mai e urlava come se la bambina, dal mondo dei paperini, non avesse potuto sentire la sua voce altrimenti.

E urlava talmente forte che Carolina tremava.
Io me ne vado per colpa tua e sentiva sbattere la porta. Io muoio per colpa tua e poi non sentiva più nulla.

E Carolina aveva talmente paura che aveva iniziato a credere che se non avesse fatto nulla nessuno se ne sarebbe andato e nessuno sarebbe morto. Ma anche a stare immobile Carolina non aveva risolto un gran che. Perché quel signore altissimo senza i baffi, aveva preso a strattonarla come un pupazzo e la faceva muovere. A destra. A sinistra. In alto. In basso. In basso. In basso. In basso.
E Carolina come un pupazzo si piega a destra e poi a sinistra. Vola in alto e cade per terra. E come un pupazzo non respira. Come un pupazzo lascia andare il peso in direzione della forza per ridurre l’attrito.

Sì. Carolina a tre anni decide di crescere e decide che sarà più altissima di quel signore altissimo e avrà le ali e sotto ci metterà la sua mamma ed il suo fratellino.

Carolina a 13 anni è la più alta della scuola.
Porta il 41 e picchia i maschi che prendono in giro il suo fratellino.
Era una bambina timida che amava colorare. Ed aveva paura di tutto.
Non aveva compagne di giochi. Stava sempre con il mento all’ingiù sforzandosi di non guardare in volto le persone di cui aveva paura. La nonna. Il nonno. La mamma. Il papà.
Si sentiva una pulce in un mondo di titani.

E con le mani amore per le mani ti prenderò
senza dire parole nel mio cuore ti porterò
E non avrò paura se non sarò bella come vuoi tu
Ma voleremo in cielo in carne ed ossa
Non torneremo più

Carolina stava sempre nella sua stanza a leggere e a studiare.
Carolina amava fantasticare sulle stelle e sul mare.
Un giorno morirò e anche io toccherò le stelle. Ci guarderò dentro e non sarà poi così buio.
E tra un libro e l’altro, Carolina teneva nascosto un piccolo caleidoscopio ed al tramonto si metteva a guadarci dentro e piangeva e piangeva e piangeva.
Ci guardava così tanto che il mondo fuori, dopo, sembrava ancora più grigio.

Ma Carolina era curiosa di tutto. Voleva parlare con le sue compagne di scuola ma non ci riusciva.
Chiedeva loro di firmarle il suo diario ma le dicevano di no.
Sei antipatica. Non ridi mai. Perché non ridi?
Sei più grande di noi. Non puoi giocare con noi.
E intanto il tempo passava e Carolina non smetteva di crescere.

E’ Carnevale, Carolina non puoi uscire – sei troppo grande per travestirti, il costume lo mettono i bambini!
E’ Natale, Carolina non puoi uscire – sei troppo piccola per uscire da sola, ubbidisci!
E’ il Primo Maggio, Carolina non puoi uscire – sei indecente con questa maglia, copriti o gesù muore.

Carolina si guarda allo specchio e non capisce. Somiglia di più alle signore più grandi che alle sue compagne di scuola.
Carolina si chiede perché tutti hanno paura. Tutti eccetto il signore senza baffi che anche se Carolina ha imparato bene a non respirare, non aveva mai cessato di strattonarla come un pupazzo e la faceva piangere. A destra. Rosso. A sinistra. Viola. In alto. Contro una parete. In basso. In basso. In basso. In basso.

E Carolina come un pupazzo di pietra si piega a destra e poi a sinistra. Rosso. Vola in alto e cade per terra. Rosso. E come un pupazzo di pietra non respira. Come un pupazzo di pietra lascia andare il peso in direzione della forza per ridurre l’attrito. Rosso.

A 13 anni Carolina decide che se stelle non arrivano le andrà a prendere lei stessa.
Le piacevano i miti dell’antica Grecia. Leggeva e rileggeva la favola di Apollo e Dafne, del dio sole che si era perdutamente innamorato della Ninfa Dafne, figlia del dio fluviale Penèo. Apollo, il bellissimo dio, non era corrisposto dalla Ninfa ed infuriato, non le dava pace e Dafne, sfinita dalle fughe per sottrarsi all’insistente Apollo, chiese implorando l’aiuto di Penèo, che impietosito decise d’aiutare la figlia trasformandola in alloro.

Ha appena finito di pronunciare queste parole che un pesante torpore le invade le membra:
il morbido petto è racchiuso in una sottile corteccia;
i capelli si allungano fino a diventare fronde, le braccia rami;
i suoi piedi, prima così veloci, sono inceppati da inerti radici;
il viso diviene la cima dell’albero.
Solo il suo splendore le resta.
Ma anche così Apollo l’ama e ponendo la mano sul tronco sente battere ancora il suo cuore sotto la corteccia appena spuntata, stringendo fra le braccia i rami come se fossero membra dell’amata, copre di baci la pianta. La pianta tuttavia cerca di evitare quei baci. Allora il dio così parla:
"Poiché non puoi essere la mia consorte, ebbene sarai il mio albero. La mia chioma, la mia cetra, la mia faretra saranno sempre inghirlandate di te, o alloro!"

Carolina pensava che non c’era salvezza. Che se avesse letto prima di Apollo e Dafne lo avrebbe capito subito. Di notte Carolina entra in cucina. Apre il cassetto e tira fuori la mezzaluna.

Senza respirare va in bagno.
Senza respirare guarda la mezzaluna nella mano destra. Poi il polso sinistro.
Poi guarda le stelle di gennaio. Tira un fiato come se soffiasse in un flauto.

Carolina ha paura. Carolina ha solo la paura e la porta delle stelle.
Come un pupazzo di vetro, si strattona da destro verso sinistra, da sinistra verso destra. Rosso.
La mezzaluna cade. Le stelle sono più vicine.

Caldo. Rosso. Caldo lungo le mani. Aghi nei polsi.
Carolina torna a letto. Carolina non respirare.
Carolina non ti svegliare.

Carolina non conta gli anni. Carolina non dà importanza al tempo, ai numeri, alle parole.
Carolina mille cicatrici ed un cuore sacro da proteggere che sa prendere e sa dare.

Carolina si sente una donna in mezzo ad una folla di maschere.

A chi vuole bendarmi gli occhi, dice, sarà più irriverente indicare le stelle.

A chi vuole strattonarmi come un pupazzo, sarà come suonare al pianoforte una musica che inizia piano e finirà per far sanguinare le orecchie.

A chi mi parlerà per vuotarsi le viscere sarà calda, solida e più forte l'onda che confinerà la mia sostanza.


13 nov 2007

Bologna 22 Ottobre 2003

Una lettera al più caro amico di 4 anni fa. Quattro giri intorno al sole e una parte di me che non esiste più, perchè ha cessato di sanguinare e ha ripreso a respirare. Una parte di me che merita rispetto e voglio abbracciare. Sempre.

Carissimo,
proprio non ce la faccio ad attendere fino a venerdì. Sento di doverti dire ora le cose più impellenti, nella speranza che non restino troppo nero su bianco, o che superino il muro di dover usare la voce per dirle.
Non lo so.

Ti ho detto che ho trovato una gran bella casa. Vuota. Non è ancora finita. Sembra la possibilità di un'altra vita, il dolore di una nuova nuova dentizione a 26 anni. Piuttosto spiazzante la possibilità e la sensazione oramai quasi dimenticate di ripartire da zero liberi, leggeri, senza costrizioni, senza doversi adattare all'ennesimo compromesso, senza doversi forzare in compagnie che non ci appartengono e finiscono con il riuscire a distorcere anche le nostre solitudini.

è tutta bianca la mia nuova casa: con una grandissima finestra che dà sui tetti rossi di Bologna, in un palazzo che nasconde un giardino segreto, con un pavimento di legno marrone caldo e profumato.

Sembra Natale....
Sembra quando le parole arrivavano a fiumi senza poterle interrompere o quando la voce scoppiava in gola pur di poter uscire, e se era costretta a tacere mi si scioglieva il sangue nelle vene, e pensavo che la mia voce era tutto quello che avevo.
.... non ne ho più tantissima, e una buona metà devio impiegarla per le comunicazioni di servizio. Mi restano le mani, gli occhi, il fiato, lo stomaco.

Non so questo giovedì ritornerò al mio piccolo circolo degli orrori e non so se se ho fatto bene a ricominciare a frequentarlo.
Andare lì è un pò come vedersi in uno specchio che restituisce un'immagine agli ultravioletti dei relitti, delle funi, delle cicatrici, delle bare dimanticate negli armadi.

Ci si sente vecchi di tanti anni di più dopo e non sai come, non sai quando è che hai chiuso gli occhi e la tua vita è cambiata senza che te accorgessi, e hai chiamato impegno un falso opportunismo, e amore una malattia.

Dunque, ho il lavoro, e il vortice nel quale preferisco imparare a sopravvivere piuttosto che vegetare ma che mi ha tolto la voce, e tiene il fiato in gola legato ad istante interminabile di attesa, di muri che devono cadere, di pregiudizi che non cadranno mai, di limiti che devo spingere. Ecco.

Come ci si sente dentro. Sola fuori e dentro, senza voce.
Nemmeno stonata: chi stona canta, chi stona conta come tutto il coro di vili pecore che fingono d conoscere le parole o le sanno o le insegnano, mentre io sono incapace di dire la metà dei miei versi, e vado a prendermi il mio futuro di velenoso silenzio in punta di piedi.

Ivan, io non lo so se dove arriva la sopportazione di un amico perchè non ho mai chiesto. Lo sai che ho una grande difficoltà a parlare dei miei problemi e che generalmente, da buona elefantessa quale sono, preferisco andare a morire da sola le mie morti senza confermarmi per quello che sono anche rispetto agli amici - umana, replicabile, forse colpevole.

Una volta mi hai detto che gioco a nascondermi dietro le parole. Spero che stavolta capirai che, quando le parole si nascondono dietro di me, restano le mie mani storpiette che provano a farne una treccia, dei binari di acciaio su cui camminano le vicende di questa vita, sussurranti e urlanti nell'unica voce eterna, il vento.

12 nov 2007

Das Unheimliche, o Come ho smesso di preoccuparmi e scelto di stare con le mie viscere

Un terremoto sta facendo ballare la terra sotto i miei piedi.
Come mi sento...Mi ritorna in mente una lezione di Estetica all'università, tanti anni fa.
Un professore capace di farti sentire fino al midollo ciò di cui stava parlando. Sì, fu una lezione bellissima - se non altro la ricordo dopo circa 7 anni.

“Il perturbante è una sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da tempo. Un rimosso che ci è da sempre familiare”

Non lo ricordavo più da Freud. Ma sono andata a cercarlo, senza nemmeno sapere perché. L’istinto, la memoria, la pancia mi hanno portato sul motore di ricerca a comporre “sandman”…e non chiedetemi perché.
Da Hoffmann a Freud, passando per Kubrik, la corsa in taxi è stata breve... e spaventosa.

"il perturbante che si sperimenta direttamente si verifica quando complessi infantili rimossi sono richiamati in vita da un'impressione o quando convinzioni primitive superate sembrano aver trovato una nuova convalida [...]; al fine della nascita del sentimento perturbante è necessario [...] un dilemma relativo alle possibilità che le convinzioni superate e ormai ritenute indegne di fede si rivelino, nonostante tutto, rispondenti alla realtà”. (Freud: 1919)

Mi sta tornando fuori dalle viscere qualcosa che temo sia così.
Ho paura. Ho una paura fottuta.
Ma ci sto dentro. Non ho nessuno intenzione di mollare.
Mi prendo i miei spazi e stringo la mano alla paura.
Stavolta non mi toglierai il respiro.
Ti presento e mi fai male. Ma la spinta alla Libertà è più forte.

Certo, qualcuno potrebbe dire che è molto più facile fare del male che scambiarsi del bene.
Ovvio, ma questa è acqua passata.
Questo sapore lo conosco già e non mi piace. E’ troppo amaro.

Quello che non conosco – o meglio – quello che conosco poco e mi fa vacillare per la paura di non saperlo prendere, ce l’ho davanti.
Ed io (non) ho paura di me. Di te. Non mi fa paura il mio silenzio. Il tuo.
Non mi fa paura il mio dolore. Il tuo.

Resto nel grembo. Resto nel guscio a sentire i battiti del mio cuore.
Non ha importanza nient’altro.

Questo coniglio bianco sta passando sotto il mio naso per svelare un segreto di Libertà. Quello che già sedimenta in me da mesi. Ciò che già possiedo e non ho mai osato agire.
Ma io sto con le mie viscere.

Tre notti che dormo male. Mi dimeno come una furia. All’alba più stanca di prima. Il perturbante che riemerge. Sogni confusi di acque torpide e immobilità e impotenza....Ecco, se adesso mi chiedete perchè come in trance ho cercato sandman lo saprei anche spiegare....

Ma io sto nelle mie viscere. E sia quello che deve essere.
Un’intera vita nella gabbia. Di vedermi con gli occhi con cui mi hanno vista gli altri. Di rabbia. Di disperazione silente. Di mutilazione.

E mai conme adesso, riconosco cosa significa varcare quella cella.

Sì, io sto nelle mie viscere. La rabbia e la paura chiedono servi.
La dimensione della mia libertà è nel coraggio di restare all’ascolto del mio cuore.

The Look of Love

Diana era in ritardo. Dafne l’aveva chiamata al telefono quasi subito dopo il lavoro, ma Diana era così, veniva quando le pareva.
E, come sempre, era impeccabile. I tacchi su cui dondolava decisa. La severa alternanza di grigio e nero nell’abbigliamento rigoroso. Il trucco essenziale – nero anche quello – solo rimmel, nota Dafne, che provava ad immaginarla senza quel tratto ebano. Si chiedeva come sarebbero stati gli occhi di Diana privi di quell’ evidenziatore da primo piano che ne faceva due fanali che divoravano il viso.

Un bacio di misura. Affettuoso ma a debita distanza. Si siede sulla sedia bianca, Diana. Inclina leggermente la testa verso destra scoprendo un collo nervoso, i capelli ordinati in uno chignon impeccabile mentre si accende una Cartier con un accendino di metallo color canna di fucile, anche quello coordinato con l’abbigliamento. Un altro feticcio della sua implacabilità.

“Ti faccio un caffè?” Dafne aveva passato la giornata a casa. Indossa la tuta d’ordinanza da week end. Pantalone blu. Felpa verde. La stessa che indossava ai tempi della scuola. Aveva cercato di fare un po’ d’ordine, non solo in superficie, e stirare le camicie per la settimana mentre sussurra a bassa voce un pezzo di Sinatra. Come sei antica, l’avrebbe apostrofata Diana.

“Volentieri, sono solo al quarto oggi e per venire da te ho rimandato una riunione” sottolineò con una nuvola di fumo.
“Lavori anche questo sabato?” chiede sorpresa Dafne.
“Io lavoro sempre, mia cara, non vedo come sia possibile evitarlo, del resto. Il mio è un lavoro di responsabilità. Non oso pensare cosa accadrebbe se un giorno non andassi in ufficio. Ti ricordi il mese scorso? Quella maledetta influenza? Nel giro di una sola ora, almeno una trentina di messaggi in segreteria. Sono indispensabile agli azionisti”
“E gli azionisti sono indispensabili a te” inserisce ironica Dafne.

“Perché, tu non lavoravi oggi?”
“Ho provato, ma non ho combinato niente di buono. Lo sai com’è, quando non è giornata non è giornata. E per fortuna, non è quasi mai giornata nei week end” prova ad abbozzare Dafne, con un mezzo sorriso.
Diana la guarda impassibile. Aspetta altre parole.
“Beh, comunque grazie di essere venuta...” velocemente tira ad indovinare. E poi “Metto su un po’ di musica, ti va?”

Non attende risposta. Accende il fornello per il caffé. L’indice precorre la pila di cd di fianco allo stereo in cucina. Si ferma su Diana Krall. Sì, qualcosa di morbido, pensa Dafne.
La musica si diffonde lentamente. Le si addice questo jazz, pensa Dafne, mentre osserva Diana abbassare gli occhi in cerca di un rifugio in ogni direzione.
“La tua solita musica di antiquariato?” esordisce sprezzante l’amica.
Dafne sorride. “Se non ti piace, posso cambiarla…aspetta qualche minuto però prima di dire che non ti piace.”

Era sempre così con la musica. Diana ascoltava poco. La musica non le piaceva. Non le piaceva nemmeno il silenzio. Ma più di tutto, non le piaceva non essere informata.
Diana, infatti, era costantemente aggiornata su tutto.
“Sei peggio di Wikipedia” la prendeva in giro Dafne. Diana leggeva i best seller che riempivano le classifiche sui settimanali. Acquistava regolarmente le nuove uscite alle Messaggerie Musicali. Conosceva molta più musica ed autori di quanti Dafne potesse immaginare. Ma non riascoltava mai lo stesso cd più di una volta. Non leggeva mai lo stesso libro più di una volta. Oltre che, naturalmente, leggere tutti i giorni la rassegna stampa per la quale aveva preteso ed istruito appositamente una stagista.

“Quindi, cosa c’è tesoro di tanto importante? Mi sono preoccupata per te, sai, quando mi ha telefonata..”
“Ah….ma no, niente di grave…è che…volevo sentire come stavi, raccontarti un po’ di cose…” imbastisce Dafne mentre versa il caffé in due tazzine di vetro, cercando di ricordare cosa fosse acceduto quando l’aveva chiamata.
Con Diana era sempre così. Con Dafne era sempre così. Un nuovo traguardo o un incontro per la prima, un sogno o un’emozione incontenibile per la seconda, ed entrambe sentivano l’urgenza di ritrovarsi l’una di fronte all’altra.
Ma i sogni e le emozioni sono come le onde. Arrivano e svaniscono. Provi ad afferrarle e ti restano solo le mani bagnate che sanno di sale. Poi il sale asciuga l’acqua. E le mani ti restano come la superficie della luna. Con un sottile tatuaggio di crateri cristallini che scivolano via senza che tu te ne accorga, pensa Dafne.

“Ho fatto un sogno stanotte” dice Dafne “ero in un agriturismo, con Dimitri. C’eri anche tu. Anzi, credo di essere stata lì per te. C’era uno dei tuoi super meeting ma finivi presto e dicevi che dopo si andava al mare con gli altri. E mentre tu eri in riunione io e Dimitri facevamo un giro. Poi il cielo si copre di nuvole e c’è un sacco di gente che comincia a scappare lungo i corridoi, lungo le scale. Ci affacciamo alla vetrata dell’agriturismo e vediamo arrivare degli elicotteri. Da basso c’erano dei ragazzi, era una specie di manifestazione…tipo uno sciopero…sai. Quei ragazzi, agitavano delle palme, degli ulivi, ma che cosa stupida, insomma, delle robe così.
E all’improvviso, da quegli elicotteri comincia ad arrivare giù dell’acqua e del fumo per disperdere i manifestanti..”
Diana ascolta inespressiva. Accende un’altra sigaretta.
“E poi” continua Dafne, raccogliendosi lentamente i capelli con un elastico, “improvvisamente siamo al mare. Il cielo è ancora coperto. L’acqua di metallo, ma calda. C’erano le alghe, ma io e Dimitri facciamo il bagno lo stesso. Ti vedo arrivare…ah, e c’era anche la tua collega, come si chiama, la bionda con gli occhiali a farfalla…”

“Ma chi, la Trepagnetti?” chiede Diana con sospetto.
“ Sì, sì proprio lei!” esulta Dafne
“ E’ una delle mie segretarie, Dafne, non una collega” la corregge Diana.
“Ah, non me lo ricordavo…comunque, sì, arrivava lei e pensavo ecco, adesso arriva anche Diana, chissà se ha saputo qualcosa di tutto quello che è successo stamattina…e poi tu arrivavi e mi vedevi, ma andavi dall’altra parte della spiaggia.. e non ricordo più, non credo che riuscissimo a parlare..che sogno strano, eh?”

Dafne non sa cosa aggiungere. Non sa nemmeno perché ha raccontato quel sogno.

La solita sconclusionata, pensa Diana. Per questo ha un lavoro precario. La vorrei vedere in banca, a reggere le onde d’urto del mercato, dei clienti, degli azionisti. Non resisterebbe nemmeno un minuto. Nemmeno al telefono. Perché lei lavora con la musica. E come potrebbe reggere? Fa la pubblicitaria – ma che lavoro inutile…la sua cioccolata venderebbe da sola senza le idiozie che scrive. No… sei una cara amica Dafne – tu hai bisogno di me- ma non saresti mai nemmeno una segretaria nel mio ufficio. Non hai nemmeno un’idea di cosa siano l’efficienza e la precisione.

“Sempre fervida la tua fantasia..” sostiene Diana “potresti usarla come idea per il tuo lavoro…”

“Ah” la interrompe Dafne. Si avvicina allo stereo, alza il volume. Diana Krall canta un pezzo di Sinatra, lo stesso che canticchiava silenziosa alla mattina, mentre stirava le sue camicie colorate. “Senti che bella questa, te la ricordi?”
“Certo” risponde Diana. Non ha idea di chi sia questa Cral – si scrive così, come le associazioni dopolavoristiche? Né di cosa stia cantando ma è sicura di averlo già ascoltato, non può non averlo già ascoltato almeno una volta.

“E…con Dimitri? Come vanno le cose, ancora a discutere del sesso degli angeli?”
Dafne abbassa lo sguardo. Poi mette i suoi occhi in quelli di Dafne. Come sono neri, come sono profondi, non vedo niente. Si pente un istante dopo. Ecco, io non vedo niente e lei ha già visto tutto. Tutto quello che le basta vedere. Sa già tutto.

“Come va…come sempre… E’ in Giappone, lo sai? Sta girando una serie di spot per una multinazionale…E’ partito lo scorso giovedì…ci siamo sentiti, è molto contento..ha detto che la prossima volta, avendo un po’ di tempo per organizzarsi meglio, andremo insieme!”
“La prossima volta? Bene..era ora…se non altro non ti ricoprirà di fiori come al solito…”

Parla sorridendo – quel sorriso implacabile – e indica il vaso stracolmo di orchidee in bella mostra sulla mensola.
“Ah, quelle…sì, visto che belle? Le hanno consegnate ieri sera, vengono da Tokyo”
E Dafne guarda quei miracoli delicati. I petali – una geometria perfetta - bianchi, orgogliosamente macchiati di cremisi e indaco, macchie e striature che facevano di quelle creature vegetali un’opera d’arte perfetta.

“Sì, sono di moda adesso…” replica Diana “ Ma in casa non le terrei mai, sai com’è…io a casa non ci sono, con il lavoro che faccio è già tanto che la mattina sappia in quale città mi sto svegliando. Le tue orchidee morirebbero nel giro di pochi giorni…” Tollero solo le calle, Dafne, dovresti saperlo. E infatti non sono fiori. L’ho letto su Donne e Botanica Hi-Tech. Le calle sono foglie. Appartengono al fusto. Alla pianta. Sono così essenziali. Non odorano nemmeno. Che fronzoli inutili, i fiori.

“Non è vero…le orchidee sono molto longeve..”
“Sono fiori, Dafne.” E spegne la sigaretta piantandole gli occhi negli occhi.

Con una impercettibile rotazione del capo, porta in avanti il mento, quasi a farsi avanti – quel viso lungo, affilato, mediorientale – quasi un morso.
Dafne non si muove. Gli occhi mordono. Pensa. I fiori, mordono.
“Diana, lo so che Dimitri non ti piace” riconosce Dafne.
“Non deve mica piacere a me” sorride l’amica con distacco.

“Non dico questo. Dico che lo so, lo sappiamo, che ogni volta che mi chiedi di Dimitri, trovi sempre una ragione per biasimarlo…d’accordo, non deve piacerti per forza, ma dopo tre anni…potresti almeno ammettere che forse ti sei sbagliata sul suo conto..”
“Non c’entra Dimitri…” la rassicura Diana con il sorriso “E’ che io e te siamo diverse. Io i maschi li uso, è vero, prendo quel poco che si può prendere da loro di buono e penso a me, alla mia vita, al mio lavoro. Tu…tu te ne stai lì a credere che dividersi la vita con qualcuno sia normale. Tutto qua. Non saremmo così amiche altrimenti, no, se non fossimo così diverse?Io sono il tuo terzo occhio e tu sei il mio”

Dafne si agita. Gira e rigira tra le dita la chiave del mondo, una piccola chiave d’argento adornata da una mongolfiera che ha trovato sul pavimento mentre riordinava alla mattina – un ciondolo appeso ad un bracciale, forse, uno dei suoi? Di qualcuna che era passata da lì?

“Io…non so…voglio dire, sì, siamo diverse, ma tu non ti dai nemmeno il tempo di conoscerli gli uomini che frequenti…li pianti dopo quanto, due, tre settimane?”

“Andiamo Dafne, non diciamo assurdità..” si volta di lato Diana, contraendo la mascella.

“Capitan Voletti non era mica uno stupido, scusa, era così gentile, aveva anche già un figlio…e tu lo vuoi un figlio no? Eri a posto!”
“Ma chi, il pilota?”
“Sì, quello che ti ha portata a Vienna, al concerto di Natale..”
“Ti ricordo che Capitan Voletti non faceva altro che parlare di aerei, era così pesante.. e poi, rozzo. Mi avrà anche portato al concerto di Vienna, ma l’hotel sembrava la casa di mia zia Domitilla. Senza un minimo di personalità. Nemmeno l’idromassaggio in camera! Ma per favore, non aveva capito con chi aveva a che fare…”

“E va bene, tu sei più sofisticata..ma allora, l’onorevole Clementio? Lui era così colto, era così….avvocato…Ti sei stufata anche di lui!”
“Ti credo! Mastellucci non perdeva occasione di fare processi anche al ristorante…non sai che imbarazzo. Alla cena di inaugurazione della Loggia dei Togavolponi ha sindacato mezz’ora sulla selezione dei vini con un sommelier. Non mi vedeva nemmeno, io che avevo sudato 5 settimane per entrare in quell’abito da sera Chanel 42.”
“Sì, ma quando ci parlavi di diritto commerciale ti piaceva e come! E poi, sono venuta con te a comprare quel vestito: eri una favola, sembravi un’attrice..” protesta Dafne.
“Appunto, l’onorevole, credeva di potermi insegnare il diritto ed espormi come un trofeo. Tu cosa avresti fatto al mio posto, scusa?”

Dafne ammise con lo sguardo la conseguenza logica. Voleva aggiungere “Io non sarei mai uscita con uno come l’onorevole Clementio – si vedeva lontano un miglio, era uno specchio. Rifletteva quello che volevi vedere. Ma Dafne tace. Sta innervosendo Diana e Diana ha bisogno di parlare.

“Anche Telemaco Sanders, te lo ricordi? Sembrava così sensibile, così…intellettuale..”
“Telemaco Sanders? No…non me lo ricordo..”
“Dai, rientravo da quella riunione a Monaco. In aereo. Quello del colpo di fulmine….ma come non te lo ricordi? Ti ho chiamata alle tre di notte per raccontarti tutto.”

Gli occhi di Dafne, occhi d’acqua, sempre lucidi, sempre in bilico tra mare e orizzonte, testimoniano una vaga incertezza.
“Telemaco è quel tipo che insegna all’università. Semiotica. L’assistente del Professor Fragore. Io ho detto qualcosa di difficile, giusto per metterlo alla prova, e lui subito ‘Io ti parlo del desiderio e tu dell’oggetto mancante’….”Diana solleva le mani. Entrambi gli indici puntati come antenne a rimproverare la memoria corta di Dafne “Ma dai, Lacan, no? E’ ovvio, ci siamo presi subito con la testa!”

“Ah…” finge di ricordare Dafne “ ed eri tu quella che lo metteva alla prova?”

Ricorda solo qualcosa di quella telefonata notturna. E non erano le parole di Diana. Erano i suoi pensieri. Eccoci, un’altra vittima. Se riesce a impolpettarlo con le sue chiacchiere, lo accalappierà come si fa con i cani. E se lui è più debole o più furbo ed abbaia a comando, potrebbe anche andarci a cena. Ma lei ci riesce. Diana ci riesce sempre. Del resto, è così affascinante. Ci gioca un po’, li mette sul palco a recitare un monologo solo per lei, poi quando la distanza si accorcerà troppo, si stuferà e lo abbandonerà in autostrada. Come un cane. Ma come fa a non vedere?

“E cosa aveva che non andava?”
Gli occhi di Diana diventano ancora più neri. “La testa. Cioè, un gran cervello, intendiamoci, ma Telemaco aveva solo quello. Magrolino, minuto, perfino più piccolo di me…ma ci vedevi insieme?”

Diana accende la terza sigaretta.
“Non c’è niente da fare. E’ il mio destino. Lo porto nel nome, no? Diana come la dea della caccia” ride sprezzante. “ O la dea della guerra. Partorita dalla testa di Giove…ma che ne vuoi sapere, tu sei così…così….naive. Frequenti da tre anni uno più spiantato di te, non sai nemmeno dire perché state insieme, non hai idea di cosa significhi la concretezza!”

“Diana” Dafne avvicina la sedia a quella dell’amica. Si siede e sporgendosi verso di lei le prende una mano.”Io ti voglio bene” Sempre perfette le sue mani – la french una volta la settimana, come il parrucchiere, l’estetista, le terme. “Così come sei, davvero.”

Si guardano. Sono una lo specchio dell’altra. Due vite che potevano andare nella stessa direzione e che per una ragione o per l’altra avevano preso pieghe diverse. La variabile incontrollata del mercato, avrebbe diagnosticato Diana. Un gran colpo di culo una volta tanto, avrebbe ammesso Dafne.

Diana ritira la mano. Quel contatto la infastidisce, le sembra un’elemosina . E non le serve la compassione di nessuno. Tanto meno quella di Dafne.

“Certo, lo so.” Retorica e sbrigativa. La stessa inclinazione distante con la quale aveva accettato il caffé. “Ma siamo qui per parlare di te, no? Quindi, cosa dicevi di Dimitri? Quando andrai in Giappone con lui?”

“Non lo so….si è solo detto che prima o poi ci andiamo insieme…”

“Bene” sorride a denti stretti Diana. Con eleganza fa vibrare il bracciale al polso sinistro. Guarda il suo scintillante Baume et Mercier. “Si è fatto tardissimo, ho un appuntamento al Circolo Tantrico Ayurvedico”
Un bacio. Di misurata distanza. La promessa di risentirsi presto.

Dafne chiude la porta. Governa la cucina. Ripone la tazzine nel lavello mentre dalla scale sale il riverbero dei tacchi di Diana. Veloce. Determinato. Senza scuse.

Il caffé. Diana accetta il caffé e l’amore con la stessa voce. Gli stessi occhi.

Si asciuga le mani che non tollerano guanti e guarda le orchidee pensosa.
Il Giappone. Ma ci andrò mai con Dimitri in Giappone? Sono tre giorni che non lo sento. Ho provato a chiamarlo stanotte per il fuso ma non mi ha risposto. Sarà felice? Starà bene? Mi ama ancora?
I miracoli immacolati orgogliosamente striati di colore vibrano alla luce del tramonto che filtra le sue ultime diffrazioni dalla finestra.

Diana Krall smette di suonare.
La radio, sostituendosi al cd urla un pezzo rock.

What if I say that I’m not like the others
What if I say that I’m not just another one
Of your plays
You’re the pretender
What if I say that I’ll never surrender

Dafne sorride. Socchiude gli occhi e sente il calore.
Devo ricordarmi di chiamare Diana più spesso.

9 nov 2007

Lealtà per lealtà, amore per amore, coraggio per coraggio

Oggi è una giornata spenta. Non chiedetemi niente, tanto non avrei le parole. Ho trovato questa lettera. Ha tre anni. Ho deciso di pubblicarla perchè la scrittura, come gli occhi, copre le distanze. L'ho riletta io, 2 volte. E continuo a non adoperare specchi.
Un personale Amarcord che in questo freddo novembre ci sta proprio bene. Almeno mi scalda. Mi da' coraggio. Mi fa sentire meno intorpidita. Numb.

25/o6/ 2004
Lo so che in queste occasioni sono gli ltri che scrivono qualcosa: un pensiero, un augurio, un messaggio d'affetto, ma stavolta sono io che voglio dire qualcosa.
L'ultima volta che seriamente riflettuto su un compleanno, a patto che si possa pensare seriamente ad una cosa del genere - è stato quando ho compiuto 20 anni, nel lontano 1996. Ricordo ancora perfettamnte che studiavo per l'esame di Storia del Giornalismo e delle Comunicazioni di Massa con un occhio sul libro e un altro alle partite di calcio- c'erani gli Europei, ve li ricordate? - e quel giorno, di pomeriggio, due ragazzze conosciute all'università w poi inghiottite dal buio dei venti anni mi vennero a trovare, e mangiammo un pezzo di torta.

La sera, mi feci gli auguri da sola su una pagina del diario. Compiere 20 anni mi sembrava un traguardo: non l'avrei mai detto. Ci ero riuscita a sentire che si prova, che cambia, come ci si sente, e per me è stato vero che 20 era diverso dai 19 del giorno prima.
20 era pieno di aspettative, era una possibiltà, era una dimensione adatta alla portata smisurata dei miei sogni.
Sinceramente adesso ho un pò paura a rileggere quelle pagine, cercare di decifrare quella calligrafia stirata sul foglio, quei segni incisi con tanta forza da sciupare lo spessore omogeneo della carta, quelle righe fitte che non erano mai abbastanza.

Oggi che sono 27 ancora non ho imparato la lezione.
La mia vita è cambiata rispetto a quello che mi aspettavo e mai e poi mai avrei detto che sarei finita dove sono. Neutralmente, intendo.
Chi di voi ama il cinema e si è sparato i molti film con Robert De Niro forse ricorderà Bronx. Un padre ricorda a suo figlio disorientato, piccolo, impaurito che bisogna impegnarsi, crdere, essere tenaci per evitare di sciuparsi, di darsi via ... "TUTTO TALENTO SPRECATO". E voi sapete bene che la goffaggine è il mio più gran talento: dimentico compleanni, bollette, qual è la chiave giusta dal mazzo per aprire il portone di casa - per non dire quando dimentico proprio le chiavi, o il telefono...o la testa!

Ma se c'è una cosa che non ho mai smesso di fare è credere.
Non tanto in me perchè non ne varrebbe la pena, ma nella possibilità che impegnandosi, che lottando, che sudando il cielo diventa più vicino, la paura di vivere si allontana, i pesi e i valori assumono caratteri reali, lontano dalla folla, dal disordine, dal passato.

Mai e poi mai rinuncerei a voi che mi avete aperto un pezzo di cuore - magari non volendo - e, rovistandoci dentro, sempre involontariamente, mi avete messo di fronte a me stessa. Quello che voglio dalla vita me lo chiedo tutte le mattine, e malgrado tutto, non ho mai avuto una risposta. Quello che voglio dalla vita lo voglio così tanto da non rendermene conto eppure lo faccio, cerco di metterlo in pratica nella consapevolezza che non un secondo di questa esistenza mi posso permettere di sprecare, perchè non ne avrò un'altra e perchè sono fortunata, perchè questa vita è mia e milioni di uomini e di donne non sanno neanche che vuol dire poter uscire da una casa che ti ripara dal freddo, avere i soldi per comprarsi il pane ma pure la cioccolata, avere una famiglia che bene o male c'è e ci sarà sempre, almeno dentro il cuore.

E' vero, Emilia ha meno paura.
Emilia lotta coi denti, tiene duro, spreca una mare di energie perchè è ancora un pò goffa e non sa come canalizzarle al meglio , Emilia è una sopravvissuta, e qualcuno di voi lo sa, che quando subisci un danno ti separa un abisso dal resto del mondo. Io sto sulle mie gambe, come una ragazza, come uno zombie, come un soldato, come Iside. E ci sono rimasta in piedi, nonostante tutto, perchè ho creduto e credo che il cielo si possa toccare con un dito.

Ci sono rimasta perchè ho incontrato voi. Ci sono rimasta perchè a scappare dal mondo e dalla vita mi sono solo persa correndo il rischio di non ritrovarmi più, e per ce cosa poi? Per non crescere, per avere paura di meritarmi di felicità, per dare per scontato che quello che avevo mi era dovuto? Io voglio crescere, voglio invecchire, voglio trovare il mio posto in questo mondo assumendomi le mie responsabiltà e inculate del caso, ma niente e nessuno deciderà al posto mio, tanto meno la paura, l'angoscia, le difficoltà, la pigrizia indotta dal fatto di avere avuto il privilegio di nascere nella parte grassa del mondo. Ecco quello che mi mancava a 20 annni: la responsabilità.
E non sto dicendo che ci vado pazza ad arrivare al 20 del mese con lo stipendio che è ridotto a spiccioli, non mi sto autoglorificando per affermare che sono la reincarnazione di Giovanna D'Arco e il mondo fuori sono i cattivi, i superficiali, i vigliacchi. Quello che dico è che vorrei altri 27 anni vissuti così: con tenacia e con ingenuità.
Con la serenità di discernere le cose importanti da quello che non lo sono, la dignità di sentire il polso che batte per amore, per un sogno, per una boccata d'aria chissà dove il prossimo anno. Non voglio avere paura mai più. Non voglio rimpiangere nulla mai più. Quello che ho perduto, non è mai tornato indietro. Quello che ho avuto paura di desiderare ormai è diventato irraggiungibile.

Se vi posso andar bene, la vostra amica è fatta così. E su di me potete sempre contare, lo sapete. Lealtà per lealtà, amore per amore, coraggio per coraggio.
Grazie per il vostro tempo, il vostro coraggio e le lezioni di vita che mi avete dato.
Vi amo
Emilia, l'incallita 27enne"

l'alba 7/11

Freddo.
Era da restare su quella sedia. Avevo trovato la posizione perfetta. Il punto di equilibrio in cui tutti i muscoli si rilassano, e non hai paura. Ero al sicuro. In una maglia che non è la mia. Su una sedia che non mi appartiene. Buffo. Del resto, a mio agio nel precario, come milioni di persone, ho imparato a starci bene. Mi sento soffocare. Ho la nausea. Sto covando qualcosa.

Treno 1
Non sono stata accolta. Altro che. Pugni di minuti frigidi.
Vesti una faccia che stamattina non è la tua e ti fa incazzare.
"Fatti non foste per viver come bruti..." Un manifesto sindacale di qualche anno fa. Ancora te lo ricordi. Io voglio il Sole, ma di che stiamo parlando?
Disprezzo. Rifiuto. Una certa quale aria di superiorità. Vedi di tenerlo bene in mente. Non te lo dimenticare mai. La parole stanno arrivando...che peccato non ci sia stato il tempo per la voce.
Scriverò una email.

Treno 2
Il freddo ti segue mentre scrivi le parole che non sei riuscita a dire. Caldo. Ho bisogno di caldo. Come sto bene quando c'è caldo. E' la mia temperatura naturale. E' la mia temperatura culturale.
Hai avuto le allucinazioni o ieri sera avevi caldo? Adessio è freddo, è così freddo che non ce la fai nemmeno a ricordare.

Quattro zompi nelle stelle
Rientri alla postazione. Rientri alla quotidianità. Non ti fanno domande. Qualcuno ti prepara un caffè e vorresti piangere per la gratitudine. Ho sbagliato a inviare quella mail?
Dice qualcosa della Siberia e del Galles - che sono alla stessa latitudine ma hanno climi diversi. Che in Galles, pioggia e nuvole sono frequenti. E proprio per questo, i contadini sono rimasti scioccati dal vedere, la scorsa estate, tre banani fare dei frutti. È stato un miracolo senza precedenti. Il mio oroscopo prevede qualcosa di simile anche per me. Una fonte di calore molto tenue diventerà tropicale. "Un’influenza che è sempre stata inospitale nei confronti della tua passione diventerà fertile e accogliente. Di conseguenza, anche tu fiorirai come non hai mai fatto prima."
Bello tirarsi su di morale con queste futilità.

Apnea ellenica contemporanea
Bandiera bianca. Mi fa male testa. Bastavano tre parole. Hai scritto una mail lunghissima e complicata. Non andrai ad obiettivo. Ma quale obiettivo? mi è bastato impugnare la penna, stavo anche perdendo il treno. Le parole sono venute fouri così e, Ritsos, non ha forse scritto:

Anche le parole sono vene,
che dentro di esse
scorre sangue;
quando le parole si uniscono
la pelle della carta
s’accende di rosso
come nell’amore
la pelle dell’uomo e della donna.


Rosso. Caldo. Sole. Zucchero. Un giro di basso. Un sorriso. Una mano. Un bicchiere di porto.
Oggi. Un letto candido. Una poesia. Una possibilità. Il caffè caldo e la Nutella.
Basta.

2 nov 2007

L'alba 2/11

L'alba.
Un istante prima della perfezione.
Esci di casa ed il cielo acciaio schiaccia la prospettiva della strada confinata dall'alternarsi di pareti ocra e corallo di case basse, implose, finestre piccole.
La pressione appena sopra la soglia minima che ti consente di stare in piedi.
Hai dormito...ma quanto hai dormito? un'enormità, da togliersi l'orologio dal polso e disinteressarsi della fiamma che lentamente ti consuma la vita.

Che coincidenza. Il treno. Sempre lo stesso. 7.07 AM. Riedizione rivista e corretta autunno 2007, dopo l'offerta lancio invernale. Vicine per temperature le due edizioni, lontane per intervallo di tempo.
Preso nel medesimo dormiveglia.
L'idrovora. Stai attenta all'idrovora.

Cambi a Prato e ti sembra di averci messo un secondo. Non ti piacciono gli occhi dei passeggeri in treno con te. Occhi di fame, occhi senza pace. Piattaforma 7. Mezzo giro su di te. Alta. Forte. Non ti serve stamattina.
Ma qual è il binario?

Arrivi a Bologna e ti senti in un altro mondo.
Ascolto i CSI e leggo Elitis...sì, ma, davvero dovrei pormelo come problema?
Dovrei davvero fare a minuscoli pezzetti ogni ora, ogni minuto, ogni sfumatura?

Certo. La catena. La catena del Valore. Sei tra Vernio e Monzuno e ricerchi la definizione. La riduzione a modello del processo di generazione del valore. Spezzettare, intermediare, aumentare i costi. Mentalizzare. Scindere. Scontattare.
Stavolta dici grazie, anche NO.
Non sto andando a sfracellarmi.
Questo treno ha una stazione che lo aspetta. Non una parete di cemento.

Respiri. Lunghi, profondi, per prendere tutta l'aria che c'è. Un oltraggio alla privazione che hai vissuto.

Occhi neri, occhi ardenti. Te la recitava quando eri al balcone un seminarista ucraino.
Tui gli dicevi strassnje e confondevi tristi con ardenti. Hai begli occhi, finalmente lo puoi vedere. Con un taglio un pò orientale ma niente di particolare.
Quello che c'è dentro, come in tutti gli occhi, è solo di chi li porta.
Oggi portano quell'alba. Quell'istante prima della perfezione.

Sotto la pelle, stai sotto la pelle.
Quando ancora non sai da dove arriva questo caldo, ritorni dentro la tua pelle, sotto la tua pelle e chiami a raccolta il sangue.
La pressione scende. Meno male che hai tirati giù gli occhiali da sole. E hai dello zucchero per fare coercizione.

Ma non vuoi nasconderti. Non hai paura di farti male. Non hai paura di farti bene. Non hai paura di prenderti la vita che ti spetta nonostante l'inculcacta fede nell'autodistruzione.

E vai di corsa in ufficio a cercare un racconto di un anno prima che ti aveva fatto ridere e piangere.

Narciso Cannibale di A.Celestini

"Loredana e Silvio mi raccontano una leggenda del loro paese dove c'era un oste che uccideva i bambini e serviva in tavola degli ottimi fegatini. Una voce avvertì la moglie di scappare coi propri figli sulla montagna di Cantalupo e quando arrivò in cima vide l'osteria sprofondare con tutto il marito. In quel luogo oggi c'è un laghetto che in certe giornate sembra tingersi di rosso per il sangue delle piccole vittime.

E sono molte le fiabe e le leggende in cui si parla di bambini mangiati come Cappuccetto Rosso o Hansel&Gretel. Probabilmente hanno una radice in una pratica che ha una storia piuttosto recente. Juan Gines de Sepulveda a metà del XVI sec parlava propio del cannibalisimo di certi nativi americani per sostenere la loro inferiorità e giustificare il genocidio di cui erano vittime. Eppure nello stesso tempo in Francia alcuni testimoni raccontano di aver visto vendere al mercato cuori umani arrostiti. Forse nasce propio da queste storie e leggende un racconto che il visionario scrittore.

Andrea Pesce ha pubblicato recentemente su una rivista enigmistica un racconto intitolandolo NARCISO CANNIBALE. I suoi protagonisti, Marinella e Nicola vivono sempre in situazioni di completo isolamento e in questo racconto sono chiusi in casa malati di depressione. La mattina si specchiano e le loro immagini riflesse si animano ed escono fuori casa per vivere la vita al posto loro. Vanno in ufficio, pagano le tasse, parcheggiano in divieto di sosta come qualsiasi cittadino rispettabile. Poi la sera tornano a casa. Al rientro, i veri Marinella e Nicola li uccidono e li mangiano.

Dopo qualche mese Marinella inizia una dieta e decide si mangiarsi solo il proprio doppio del martedì che è queello più affascinante perchè il martedì è il giorno del parrucchiere. Il resto delle Marinelle giornaliere se le deve mangiare Nicola. Mangiare se stesso e la propria consorte ogni giorno lo fa ingrassare. E più la sua stazza aumenta più il suo doppio diventa grosso. Così Nicola incomincia a mangiare i cloni di Marinella solo a fine settimana ma quelli aumentano invadendo la loro casa al termine di ogni giornata.

La Marinella del Lunedì ha l'ansia da inizio-settimana per sette giorni di seguito, quella del Mercoledì è invidiosa di quella del Sabato perchè è imprigionta nel giorno in cui ha esaurito l'energia ricaricata nella Domenica precedente...e quella successiva sembra un miraggio. Quella del Giovedì sta sempre in edicola a cercare i Viaggi di Repubblica, quella del giorno successivo mangia solo pesce, quella del Sabato ha addosso l'invidia di tutte perchè si gode due giorni di vita senza lavorare e quella della Domenica si sveglia tardi e non pulisce casa.

Ma una domenica di Ottobre Nicola si mangia per sbaglio anche la moglie vera e resta solo con il suo doppio che ogni giorno salta fuori dallo specchio e va a vivere la sua vita.
La storia finisce con il protagonita superstite che diventa vegetariano. Vegetaraiano nell'alimentazione ma anche nelle amicizie. La sua casa è ogni giorno più affollata di nuovi Nicola stipati ovunque che parlano con carote, peperoni e piante grasse."

15 ott 2007

Fanculo Roland Barthes

Buongiorno a tutti,
date un'occhiata:

http://www.beppegrillo.it/2007/10/stupro_libero.html

Il tema è l'effetto "cado-giù-dalla-montagna-del
-sapone" di stampa e varia società rispetto al dato allarmante circa la violenza contro le donne.

Temo che un burka, come propone provocatoriamente Grillo nel blog, non ci salverà dalla dilagante mancanza di rispetto per la vita nonchè di dignità personale di queste bestie.

Ma del resto, si potrebbe dire, cosa ci vuoi fare quando vivi in una società dove i più basano l'autostima sulla capacità di autocontrollo delle calorie a tavola e adoperano Mtv per interpretare la realtà. Cerebrolesi con tanto di laurea che chiamano cinismo l'opportunismo e ribattezzano l'indifferenza con la rassegnazione.

Ma sì, suvvia, è tutta colpa della società! Quando dalla mattina alla sera vedi sbattare sui giornali, su internet, in tv, ovunque la figa - scusate il francese - che in forma esplicita o sublimata è sempre disponibile, è sempre ammiccante. Quando dobbiamo fare le primarie e gestire il dissenso nell'amministrazione comunale...

E poi scusate è chiaro, le bestie in questione sono sempre immigrati..o no? Il male viene da lontano. Parla una lingua che non conosci. Non si chiama mica prostituzione l'OPA per la grande gnocca che decide di ottimizzare al massimo i profitti ricavati dal darla a CHIUNQUE le garantisca protezione, vitto e alloggio, nooooooo! Quella si chiama libertà sessuale.

Quindi non sarà mica stupro la coercizione dvanti al "no", non sarà mica "stupro" se lentamente queste bestie, complici per lassismo gli ominidi devastati dal fitness e dalla tv - insinuano la paura, l'inquietudine, la sottile certezza che ronza nella testa delle donne: "vabbè, evitiamo di andare in centro che si fa tardi e sono da sola"..."meglio evitare di fare quella strada" ..."meglio evitare di indossare questo o quell'altro"...."meglio vivere nella paura costante di un'ombra che si leva alle mie spalle".

E' questo lo stupro, a mio avviso. E non guarda in faccia al genere, alla religione o all'età. Qui non si tratta di sesso - la libido e l'energia sessuale, perfino quelle autoreferenziali- sono ormai fenomeni rarissimi anche senza il connotato della coercizione.

Qui si tratta di sopraffazione.
Il vero stupro è la castrazione della libertà. Castrazione di cui ti accorgi sempre un attimo dopo. E' bere tutta la merda che ci propinano dalla mattina alla sera. Dire a te stessa/o che tanto va bene così, perchè è sempre stato così e sempre così sarà.

E buon lunedì a tutti.

7 set 2007

Perchè il sublime, si sa, è una risata in faccia alla morte

Non ho addosso nemmeno un centimetro di pelle.
E' come se tutto, nel male e nel bene, risuonasse di un fragore e di un potere che non gli appartiene.
Mi dicono tutti che sono un fascio di nervi. Eppure io non lo sento.
Mi dicono che sono inquieta, che mangio le loro facce ed io non vesto questa tensione...semplicemente, perchè sono pronta a scattare.
Lo so, chi l'avrebbe mai detto.
Emilia che è capace di alzare la voce per qualcosa che non sia la gioia o la disperazione.
Ma la rabbia. Se dovessi immaginare la mia nuova pelle, vorrei essere ricoperta da uno spesso strato di cinismo e ancora sto qui a chiedermi perchè non lo sono.

Elucubrazioni mentali a parte, la storia che vorrei ricordare raccontandola, ha qualcosa di straordinario. Non è facile perchè non riguarda me e, checchè se ne dica, è più facile raccontare sè stessi degli altri. Dunque, la vicenda riguarda un personaggio quasi archetipico -al punto che lo battezzerò Talmud - ed una figura quasi mitologica, che per ambivalenze e somiglianze chiameremo Penelope.

Talmud incontra Penelope in un modo ed in un luogo banale. Da subito la sua figura tautologica, dalla smagliante corazza di postmoderna miscela di cinismo ed ironia colpisce Penelope, distogliendola dalla tessitura della sua eterna tela.
Talmud è di questo mondo, adopera parole come "smart" e "madame", si professa un fedele della finanza al consumo, segue un corso da sommelier professionista, si incanta davanti ai sandali da cocktail e, nella coriacea apparenza di spigliata avvenenza, porta inciso sullo scudo "homo homini lupus".
La nostra Penelope invece è di pasta buona. Come quella canzone che ascoltavano i suoi genitori, è convinta che il "futuro sia un'astronave che non ha tempo nè pietà"; si vede mutare di forma, come una pietra grezza che sta lentamente portando alla luce la linea impressa dal divino, tesse e disfa la tela del tempo in attesa che il mare le restituisca il suo Ulisse un pò degregoriano, "andato al mondo e non ancora tornato".
Incuriosita, Penelope decide di indagare le referenza tra la finanza al consumo e la tela del tempo. Tre incontri, come un ciclodi conferenze, nei quali il prode Talmud, dotato di corredo accademico, alterna cinismo a pigrizia, manifestazioni di indolenza e attestati di edonismo, sempre con compassato autocontrollo.
Tra un metodo Montecarlo e una "r" del VAN, Penelope adopera i suoi ferri del mestiere per sfiorare la corazza del Talmud, sentire di che tessuto è fatta, annusare il corredo di manuali e titoli...e quasi si confonde tra quelle formule dove, a forza, il nostro Talmud infila racconti di infanzia e desideri futuri, stupisce di fronte alla necessità del divino di ingollare più cocktail per trovare una dimensione umana...e sorride enigmatica.
Decide di sovvertire la regola di ateneo e con coraggio, osa sfidare il divino Talmud ad un confronto alla pari, lontano dalla programmazione finanziaria ma anche dalla tana dei Proci. Come il mago di Oz di fronte all'uomo di latta, Talmud vacilla, indietreggia, pone la distanza del suo infallibile metro di giudizio, la rituale fraquenza sabbatica.
Penelope intanto tesse e disfa la tela - la vela di una nave, la rete di un caicco, il peplo di una culla. E Talmud, lentamente si allontana, si mischia con i Proci, la sua voce si allinea a quella del coro. Ma tutto questo, Talmud ancora non lo sa.

6 ago 2007

I'll put a spell on you

Rientro all'alba di domenica. Stanca. Senza forze. Affamata di musica, emozioni, amore. Un'altra settimana. Un altro affitto pagato. Il rifugio dei miei venerdì e sabato. Non riesco a distendere i muscoli. La schiena non si adatta al divano. Freddo. Siamo in agosto e c'è freddo.
I've been watching your world from afar
Non riesco a dormire. Accendo il televisore alla ricerca di una nenia ipnotizzante, non trovo nulla. Nulla, e il vuoto lambisce lentamente come le onde del mare il bagnasciuga.
I've been tryng to be where you are
Domani. Domani è un giorno ancora. Cosa farò? Solo vorrei non svegliarmi come sto cercando di dormire. Questo vuoto improvviso che faccio fatica a capire da dove arriva.
Sometimes the last thing you want comes in first

Sometimes the first thing you want never come
Li ho osservati. Li ho osservati bene in queste settimane. Ho accecato il mio occhio e mi sono determinata a guardare il mondo attraverso i loro. Ho visto la disperazione, il vuoto, l'angoscia a scandire il tempo puntuale come un diapason.
I'll punt a a spell on you
Sto facendo fatica a rientrare dentro di me. Ecco perchè il mio corpo mi sta scomodo. Il nero che si portano addosso, fuori e dentro dai loro corpi mortificati, mi resta appiccicato come il catrame.
and you'll realise that you love me
Ci sono ricascata. Un altro viaggio dal quale faccio fatica ritornare. Non per i ricordi. Non per la bellezza. Per la malsana abitudine alle sabbie mobili.
when i wake you up
Dove accidenti sei finito? Sento come se stessi chiudendo il ciclo. Come se stessi reinterpretando un pezzo che credevo di poter suonare in un modo soltanto.
I'll be the first thing that you'll see
and you'll realise that you love me
E allora mi dico che ci sono, che ci sono vicina.
Che avevo solo bisogno di tempo, che sono nell'occhio del ciclone, nella pancia della balena e non ho bisogno di ripetere. Non ho più bisogno di ripetere.
He's got me lovestoned
I think that he knows. I think that he knows all.
Non si tratta di nascondersi o di farsi avanti. Non è più come quando avevo paura - di mostrare, di esprimere, di soffrire. Per ogni volta che non ho avuto fiducia in me. Per ogni volta che ne ho avuta ma mi sono comportata come se non ne avessi.
Those flashing lights come from everywhere
The way they hit you I just stop and stare
You got me love stoned
I think I'm love stoned
You got me love stoned
Domani si sveglierà quella parte di me che cerco di far risposare su questi rifugio scomodo. O continuerà a vegliare vigile quella parte di me che si nutre del sogno e delle allucinazioni quotidiane. Domani è un altro giorno libero.
Di vedere, di sentire, di tenere saldo l'altro capo della fune che tieni tra le dita.
I know that waiting is all you can do, sometimes.

9 lug 2007

Apri gli occhi

Era il treno forse. Preso milioni di volte. Sempre la stessa destinazione.
Era l'8 luglio 2005. Cambio a Napoli Centrale, destinazione Salerno e, da lì, costieravitamia che mi avrebbe aperto le braccia sotto un cielo di stelle, il profumo dei gelsomini ed il mormorio della risacca.
Eppure è stato un viaggio dolentissimo. E' arrivata così all'improvviso, in prossimità di Torre del Greco, con il ritmo incessante di un brano dei 99posse, un'onda d'urto violenta che mi ha fatto desiderare con tutte le forze che quel treno andasse nelal direzione opposta. Troppi ricordi, troppo male. Non ero pronta per tornare. Mancavo da casa dei miei da Pasqua e, prima ancora, da Natale. Brevi permanenze in cui per sopravvivere avevo dovuto anestetizzarmi in qualche modo: il lavoro, il lavoro, e ancora una volta, solo il lavoro. A maggio avevo sperimentato per la prima volta l'annientamento di 72 ore incessantemente davanti ad uno schermo a volermi dimenticare dove ero e perchè. Il tempo mi ripetevo, avrebbe sistemato tutto prima o poi, il tempo e lentamente non ci avrei più pensato.
Il giorno successivo sarei andata al mare con gli amici, i vecchi ed i nuovi, a sperimentare che significa riappropriarsi di uno spazio sempre condiviso, a ritornare a camminare su quella che per me era una gamba sola. E via andare.
Non mi guardavo allo specchio mai. C'ero e c'ero sempre per qualcun altro. Non c'ero per me. La mia porta era sempre chiusa se ero io a bussare.
Un breve salto all'Acquachiara per tentare di trovare un angolo di spiaggia libera e poi, date le contingenze, il ritorno alla Torre Normanna. Una gonna nuova e della frutta. Io, Nene, Paolo, Carmen, Anna, Pino e Imma.
Si ride, si scherza, ci si racconta. Io ero intorpidita, c'ero e non c'ero, mi sentivo un fantasma.
Mangio un frutto, non sento niente. Vado sul bagnasciuga e raggiungo gli altri. Sento la nausea.
Dico a Nene che ho bisogno di andare in su perchè non mi sento molto bene. Mi accompagnano lei e Carmen. Vado alla toilette di servizio proprio sul lungomare a quattro passi dalla spiaggia. Provo a vomitare. Mi avrà fatto male il frutto. Ma non sentivo la classica nausea da vomito. Non sentivo niente, assolutamente niente.
Mi siedo sul bordo di un'aiuola del marciapiede. Mi chiedono come mi sento, mi dicono di restare tranquilla. Io non sento nulla. Nulla che conosco. Provo a rispondere, non riesco ad articolare le parole, la mia faccia non colalbora, non riesco a muovere la bocca. E poi le mani.
Si toccano l'una con l'altra e non sentono il reciproco contatto. Non resco a muovere consapevolemente le dita. Ho paura. "Sto andando" mi dico dentro di me "sto andando chissà dove e questa carcassa non mi perseguiterà più". Ricordo l'umiliazione. Di non controllarmi davanti ai miei amici. Di sottoporli a questo spettacolo furioso e indegno che nemmeno io riesco a prevedere.
E poi il vuoto. E poi mio padre. Un breve tragitto sullo scooter dove resto in equilibrio come un sacco di patate. E poi un lettino. Il buio. Ad intermittenza. "Non voglio, non voglio, chiudiamola qui." Chiunque mi si avvicinava non lo sentivo. E se lo sentivo mi faceva scalciare dalla rabbia. Di nuovo il buio. Tutto esplodeva dentro di me ed io non sentivo niente. Qualcosa sulla punta delle dita o sotto la pianta del piede mi perforava come una lama spinta con forza nelle viscere. Un dolore acuto, che arrivava con un fischio fortissimo, il fischio del treno, lanciato sui binari a strigliare la quiete dell'immobile paesaggio notturno.
Di nuovo il buio. Un altro lettino, il contorno di un volto giovane, maschile, abbronzato.
"Dio mio no, non ha importanza, non ne posso davvero più, voglio il silenzio"
E niente ondeggiava, niente pesava, niente faceva male.
Quando è buio, è buio. Immobile. Perfetto. Assoluto. Disperato.
Qualcosa sulle dita di una mano, qualcosa sotto i piedi. Con ferocia la luce con il suo calore aveva sbranato le tenebre ed ero lì ditesa e davanti avevo Nene ed ero di nuovo io che avevo paura, che non mi controllavo, che non vedevo. "Che mi sta succedendo?" non le avevo mai pensate quelle parole ed erano venute fuori da sole. Naturalmente, senza forzare la faccia a convincerla che andava tutto bene, a pregare i muscoli di assecondare l'input che partiva lucido dal mio cervello.
"Come ti chiami?" "Come ti senti?" recitavano le Tersicore a frequenze che non ricordo e ogni volta era il piano, il pianto della nascita, il pianto dell'impotenza che non vorrebbe ma ti chiede aiuto perchè...non può. Nene mi dice solo di stare tranquilla ed io dico "Ti voglio bene". Penso "Forse non ritorno. Magari nel buoi scopro di trovarmi bene, ma tu lo devi sapere che ti voglio bene perchè non te l'ho mai detto come te lo sto dicendo adesso, e devi essere forte, fortissima anche se il tuo papà non c'è più". Di nuovo il buio. E poi scosse, scosse da ogni lato. Brevi, intermiottenti, fastidiose, ho freddo, ho freddo, batto i denti, tremo. E ritorno sui pattini verdi, sento il profumo della casa di mia nonna, ricado nel cortile, mi asciugo le lacrime sul grembiule nero delle scuole medie, chiudo gli occhi e lancio un penny in Trafalgar sq. esprimendo IL desiderio. Scosse, una dietro l'altra e mi ricordo che quella è la mia vita. I pattini verdi che sembravano usciti dal lego, così diversi da quelli che vedevo, gli occhi verdi della mia nonna, il bruciore agli occhi dopo aver pianto ore, il male, il male, il male, il male, il male, il mare.
Quella era la mia vita e non avevo visto l'attimo in cui IL desiderio era diventato realtà.
Apro gli occhi. Una finestra lunga e bianca proietta l'immagine di un golfo notturno.
Ma dove sono?
Che ore sono?
Sono a Bologna...no, c'è il mare, sono a Viareggio.
Sono a Bologna, sono a Bologna, sono a..."il treno ES Italia 9943 diretto a Milano Centrale, effettueà fermate intermedie a Roma Termini, Firenze Santa Maria Novella, Bologna."
Sono a Napoli, io non me lo ricordo che ho preso il treno, io sono venuta giù dai miei. L'ufficio. Devo chiamare in ufficio. Ma che ore sono? Ho freddo. Devo trovare una coperta. Mi sollevo. Mi sembra di sollevare un macigno. Non riesco a tenermi seduta. Ho freddo, ho freddo. Davanti a me non vedo niente, vedo solo il Golfo alla finestra.
Le mani. Le mani rispondono. Due aghi nelle braccia attaccati a sottili tubicini trasparenti. Ecco le scosse. Ma dove sono, mio dio dove sono. Ho freddo. Ho freddo. Una donna. Due. Vestite di bianco. Come la cornice sul Golfo di notte. "Perchè ti sei alzata?"
"Non lo so. Ho freddo. Non lo so."
"Come ti chiami?
"Emilia"
"Quanti anni hai Emilia?"
"Ne ho compiuti 28 due settimane fa"
"Di dove sei?"
"Sono di Maiori ma vivo qui a bologna da 2 anni"
"Emilia lo sai dove sei?"
"Ho freddo. Dove sono?"
"Sei a Salerno."
"Ho freddo"

Il mattino seguente mi sembrava di risorgere da un abisso immobile. Ero stanca, ed ero confusa.
Avevo realizzato di essere in ospedale - alquanto intuitivo il cartello con l'insegna Stroke. Ma non sapevo perchè e che giorno era, dove era la mia famiglia.
Rivedo mia madre, mio padre e mio fratello. Mi guardano con una strana espressione sui volti che non riesco ad iterpretare. Poi lo capisco, è la paura. La loro come la mia. Cerco di sorridere, di tranquillizzarli.
"Va tutto bene, sto benissimo, sto bene, mi avrà fatto male qualcosa che ho mangiato. Andiamo a casa?" pensavo. Che è successo. Ditemi che è successo. Voglio sapere che è successo.

4 lug 2007

Polemòs, o l'arte dell'urlare sterile

Dovrei fermarmi un attimo e reiflettere. Scaramanticamente non sono brava a difendermi dall'ingiustizia e davvero nel tempo sono diventata intollerante a chi alza la voce e polemizza.
Il punto è che sto facendo fatica a trovare un buon motivo per discutere - se chiedo, chiedo nel tono sbagliato. Se la mia riposta non corrisponde alle attese, sono nervosa.

Mi sembra di avere di nuovo a che fare con mio padre: in ogni caso, per qualsiasi cosa, è capace di spostare il punto di una discussione con vaga tendenza ad attribuirti parole che non hai mai pronunciato nè pensato di pronunciare. Non conta quello che volevi dire tu, ma quello che percepisce il tuo interlocutore.

Avendo sempre subito questo meccanisno in cui se mi permetto - e dio bono oggi sono in grado di permettermi tutto ciò che mi sembra lecito - di fare un'osservazione e l'altra parte non gradisce trova il modo di aggredire pur di non rispondere, ho sempre cercato di discutere in modo che le reciproche posizioni, la mia e quella dell'interlocutore, fossero in discussione in funzione di un cambiamento a vantaggio di entrambi.

Non temere, non si tratta di coraggio, anzi. Forse di poca energia, poco tempo da perdere, in ogni caso non reggo la polemica. Ma che significa poi polemizzare? Stessa radice di polemòs, guerra.

Vediamo cosa trovo sul fido dizionario:
"Usare la polemica nel rapporto di relazione implica nell'intenzione di partenza una situazione di potere, dove il polemizzando non desidera raggiungere un accordo comune ma bensì vuole imporre la propria idea sull'altro, canuffandola come discussione.
La polemica nella comunicazione tra adulti è sempre negativa poichè rigira su circoli viziosi senza apportare nuove posizioni reciproche. Denote conflitti interiori non risolti e poca autostima che invece vengono attribuiti all'altro.
Al contrario nell'adolescenza la polemica serve ad uscire lentamente da un raporto di dipendenza dai genitori , in quanto causa una rottura degli schemi usuali di potere (il genitore sul figlio) e serve per rafforzare quast'ultimo nella sua identità. Lo scontro, seppure nel circolo vizioso, provoca nell'adolescente la possibilità di percorrere e ripercorrere un processo fino alla piena presa di coscienza adulta. E' lecito applicare coscientemente la polemica quando si promuove un processo di crescita inattuabile in altri modi; infatti è sempre da tenere in considerazione che la polemica causa nell'altro un irrigidimento ed una chiusura ulteriore con tempi che diventano molto più lunghi per la soluzione che si desidera raggiungere."

Fantastico. Qaulche suggerimento su come uscire dal circolo vizioso e neutralizzare il polemizzando? Sì perchè ho riscontrato che a far notare all'altro che si sta cadendo in una polemica, non cambia assolutaemnte nulla, anzi, l'interlocutore si infiamma ancora di più.

26 giu 2007

La voce a te dovuta

Stamattina mi è arrivato questo messaggio bellissimo da un amico speciale per me.
Grazie, cumpagn mì, la lista è pronta e la finestra è finalmente aperta.

Cara Emilia,

con tutto il calore dei nostri abbracci e con tutta la confidenza che in questi lunghi anni mi sono guadagnato, ti scrivo una e-mail di auguri un po’ stronza. Sicuro che non me ne vorrai male ma che, al contrario, continuerai a volermi bene così come io ne voglio a te.

C’è una usanza napoletana che oggi dovresti fare tua. E mi scuso se il mio appunto arriva con 12 ore di ritardo.
Aprire la finestra e gettare di sotto tutte le robe vecchie. Perché quello che è fatto è fatto, quello che hai visto e vissuto è andato via per sempre e non si deve fare altro che guardare avanti.

Questi miei auguri (colpevolmente in ritardo ma spero ancora graditi) sono un po’ un invito ad essere programmatici. Brutta parola, lo riconosco, che per me vuol dire: “da adesso a 10 anni voglio fare questo e quello, voglio vedere questi posti e non quelli, voglio frequentare solo queste persone o conoscere solo persone diverse da quelle che ho incontrato finora, voglio arrivare lì e fermarmi là.”

La lista falla adesso. Staccati dalla tastiera, prendi un pezzo di carta e una penna e vattene al bar sotto l’ufficio.
Poi piegala bene e mettitela in una tasca segreta.
Torna su, alle 4 manda gentilmente affanculo il tuo capo e torna a casa.
Preparati per la festa.

Divertiti.
E da domani in poi comincia a tenere una finestra sempre aperta per ogni evenienza.

Con amore
Ivan

L'insostenibile leggerezza degli ultratrentenni

Perdonate lo sfogo, ma non so se ridere o piangere.
Sono su uno spazio critico, senza scomodare Virilio - non posso fare nomi, nè descrivere fatti e situazioni come reali. Ma se adesso volessi raccontarvi una storia sarebbe palesemente autobiografica e rischierei di compromettere altre persone la cui descrizione delle eroiche gesta potrebbe far risalire alla reale identità.

Beh, in qualche modo dovrò raccontarla. Perchè trovo sia molto istruttiva.
Ricoradate la missione impossibile di sabato? Bene.
Chiusa la pratica, compio 30 anni e me ne sto in silenzio, ad abbracciare la coscienza e le emozioni che dentro di me stanno cambiando forma, spessore e sfumatura.

E la vita è riuscita a stupirmi anche stavolta. Dopo l'interruzione delle comunicazioni risalente allo scorso sabato inizio il lunedì con un messaggio email del prodigo migliore amico della fonte del mio transitorio disorientamento, il quale, ben lungi dall'essere amico mio, ha ritenuto comunque opportuno precisare a me che era dispiaciuto degli accadimenti occorsi, che il suo fraterno amico non è l'incarnazione della malvagità ma che, addirittura, mi vuole un bene dell'anima. A prescindere dal fatto che dubito si possa volere un bene dell'anima a qualcuno che ancora non si conosce per chi è, a seguito di questo messaggio mi è....venuto il latte alle ginocchia.

E per diversi motivi. Tra cui, non trascurabile a mio avviso, il fatto che a scrivere fosse il premuroso amico e non la persona direttamente interessata - dove tengo a precisare che, tra entrambi, siamo di fronte a be 70 anni di vita e che, tra i due, c'è una differenza di soli 4 anni.

Non occorre ricorrere al pensiero laterale per fare una botta di conti. Il messaggio email non ha alcuna funzione se non quella di intervenire nella vita dell'amico poco stimato, dal momento che non lo si ritiene all'altezza di gestire autonomamente la situazione.

Capita. Generalmente fino ai 12 anni, quando tra due amici - e forse più frequentemente tra due amiche - il naturale rapporto di amicizia oscilla incontrollato tra identificazione e rifiuto, tra desiderio di primeggiare e desiderio di annullarsi nell'altro, di lasciarsene assorbire. Al punto che l'amicizia perde il carattere spontaneo di generosità, disinteresse e volere il bene dell'altro per diventare una banale e morbosa realzione di potere.

Sono scivolata senza spiegarmi. Ma è questo che mi ha fatto male. Come è possibile che un ultratrentenne apparentemente evoluto si arroghi il diritto - a patto che l'altra parte ne sia ignara - di dover dire la sua in una situazione che non gli appartiene? E' il genitore verso il bambino, non è l'amico. E' il rafforzamento del proprio sintomo patologico, non è l'amico.

E' morboso. E' immaturo. E' da pusillanime. Non c'è niente di umano. E' come se tutto il bello che abbia visto di questa persona, una volta appurato che è intrappolato dalla paura, abbia acquisito una nuova dimensione - di ineluttabilità.

Confesso che una parte di me è ottimista e vuole credere che l'amico sia amico veramente e abbia agito per puro disinteresse e affetto per l'amico. Poi mi chiedo...io cosa avrei fatto? La verità è che ritengo i miei amici perfettamente in grado di gestire la loro vita ed anche nel momento di difficoltà - o di fronte ad una evidente incapacità di prendersi cura di loro stessi - cerco di sostenerli senza mai togliere loro l'arbitrio e l'agito. Mi è capitato, e lo dico senza vergogna che in più di un'occasione abbia desiderato fare del male fisicamente ad un uomo che tormentava gravemente una delle mie più care amiche.
Nonostante sapessi che fosse giusto, non ho preso iniziative in tal senso. Mai. E lungi da me la vigliaccheria - non aspettavo altro!!! Il punto è che all'amica io ho voluto dare fiducia. Ma questa è un'altra lunghissima storia e adesso sono stanca.

Insomma, non so se piangere o ridere. E' davvero questo il panorama maschile standard con il quale mi devo confrontare? Una pletora di inetti bloccati in un trauma adolescenziale??!!
Ah....non ho dubbi, la vita mi stupirà anche stavolta.

25 giu 2007

17 seconds is all you really need

Che fatica uscire da quella porta. Avesse fatto un gesto, anche minimo per trattenermi, sarei rimasta. Ma è andata così - sabato la mia missione impossibile è stato un concreto rispecchiamento in un passato che mi appartiene, di cui ricordo molto bene il sapore amaro..ma che non corrisponde più al mio orizzonte.
Sono stata coraggiosa. Sono stata reale. Sono stata me. E amen. Non credo che ne scriverò ancora, non credo nel lieto fine. Dopo la missione, sono stata a pascolare raminga in un parco poco distante. Il sole stava per calare, il vento faceva cantare le foglie un lamento che mi abbracciava.
E mi sonoun pò sentita esattamente come a 16 anni, nuda.

"Forse perchè della fatal quiete tu sei l'imago a me sì cara vieni o sera!
E quando ti corteggian liete le nubi estive e i zeffiri sereni,
e quando da nevoso aere inquiete tenebre e lunghe all0universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete vie del mio cor tieni.

Vagar mi fai coi miei pensier su l'orme
che vanno al nulla eterno

E intanto fugge questo reo tempo
e van con lui le torme delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier che entro mi rugge."

Ho addirittura pianto. Due lacrime. Senza strepitare. Senza scenate.
Due lacrime che ho non ho voluto ingoiare. Che bruciavamo da morire tanto erano salate.
E se ci devo stare male che ci stia, niente è paragonabile a quanto ho già sofferto.
E poi, si tratta del rammarico per un'opportunità che deliberatamente una parte ha scelto di non sperimentare, ponendo ragioni che vanno oltre la mia limitata comprensione.

Ma andiamo avanti, sì, perchè oggi ho 30 anni e, nonostante tutto, voglio andare avanti.
Voglio il sole, voglio il mare, voglio il vento, voglio la neve, voglio tutto quello che avrò la forza di desiderare.




23 giu 2007

Breviario minimo prima di compiere 30 anni

E' sabato e sono a pezzi.
Una fame da lupi - le 14.46 e ho mangiato quello che credevo mi sarebbe dovuto piacere, ovvero qualcosa di diverso dal solito. Risultato? non vedo l'ora di lavare i denti. Ma c'è un altro dente che devo sistemare prima. Mi preme di più in questo momento.

Ieri è stata una giornata interessnte: ho cambiato mille maschere e sono riuscita a restare me. Cerchiamo di essere meno criptici: in questo momento ho due lavori - uno, che per sua natura, è fatto di relazione, analisi, capacità di essere nel "hic et nunc", versatilità spazio temporale e, per fortuna, creatività; l'altro, un brutale ed enttusistico front office di manovalanza.
Ieri ho vissuto la pregevole alienazione professionale di dover essere 3 ruoli diversi nello stesso giorno...ed ero sempre io. Consulente, tutore in un'università e cassiera.
Chiunque di voi legge questo post e vive un'esperienza simile..per favore, confrontiamoci, ho bisogno di mettere in relazione questa esperienza.

Ed è questo il punto: io ho una fame atavica di relazione e di esperienza. Ho energie da vendere, nonostante abusate e logorate. Non mi fermo mai. Anche di fronte ad inequivocabili avvertimenti. E' precoce, dicevano i miei genitori falsamente preoccupati quando a 4 anni leggevo e scrivevo - come se non avesse voluto qualcuno che imparassi il prima possibile.
E' più matura della sua età, gongolavano i professori al liceo quando, nei confusi periodi dell'occupazione non partecipavop con i miei compagni alle partitte di calcetto ma mi rintanavo in biblioteca a leggere e rileggere Chateubriand, Hugo, Foscolo, Hesse.
E' estremamente inconsapevole - dunque un pericolo per se stessa - rimproverava la correlatrice della mia tesi di laurea, implorando me e addirittura i miei, di fare qualcosa per tirarmi fuori dai libri e vivere nella realtà di questo mondo.

La verità è che di questo mondo io ho sempre fatto parte. Solo, l'ho sempre osservato ad un pelo dalla superficie, sotto l'acqua, come guardando in un caleidoscopio che avesse il dovere di incantarmi ogni volta, spaventarmi ogni volta con le sue sorprendenti combinazioni di imprevedibili variabili.

Dopodomani compio 30 anni. E sento tutto il potere. Di essere indipendente economicamente da un bel pò. Di essere libera di decidere della mia vita. Di essere me cha ha davanti una serie infinità di opportunità. Pregi e difetti.

Tra un'oretta andrò a chiarirmi le idee confrontandomi con la persona che mi disorienta. Nessuna certezza, dice bene il mio amico della bassa reggiana, solo opportunità.
Non sto andando a giocare la mia solita partita a scacchi. Sto andando a portare della frutta fresca e del te, sto andando a dire: "Di te mi interessa"
In ultima analisi, sto andando a rischiare.

Questo è il più bel regalo che possa farmi. Non si tratta di paura o di sentisrsi inferiori. Il mio percorso - ahimè- mi ha portato nel tempo dal sentirmi seriamente una nullità rispetto al resto del mondo al riconoscere il mio valore che in quanto mio è unico e prezioso. Le piccole bilance dentro di me stanno andando in pari dopo oscillazioni, testardi e ingenui tentativi di trovare la vai di mezzo.
Ho energia da vendere e questo è un mio gran difetto. Sono come i bambini: mi entusiasmo e mi appassiono per le piccole cose. E a furia di farmi male è stata la paura di farmene ancora che mi ha messo un freno, non la consapevolezza di sapere quando appassionarmi, o almeno, di poter contare sulle mie difese.

Daphnae è sempre stata per gli altri: tu devi essere questo per me, tu devi fare questo per me. L'alternativa era il nulla. E via. Lo faccio da 30 anni. Senza presunzione, chi mi conosce dice che sono untesoro, che sono un angelo, che è stimolante e fonte di arricchimento avere a che fare con me. Salvo poi non reggere.

Mio dio, sembra che io sia un tipo travolgente. Non è così, io sono timida, anzi introversa. Tanti mi conoscono, davvero a pochi apro il mio cuore. Daphnae si attiva - si attiva anche al posto tuo, scioglie le tensioni e ti offre la soluzione. Daphnae non ti permette di mostrarmi i tuoi attributi, perchè se per ipotesi non ce li hai o non sono abbastanza, Daphnae non lo regge.
Che despota, niente male eh?
Controllo io, ci penso io, mi ti carico sulle spalle e ti faccio divenire una supernova per poi dire che sei eccezionale. Peccato che della eccezionalità non se ne veda l'ombra se non di quella parvenza indotta da me. No. Così non va bene. Oltremodo non sono nemmeno narcisista.

Quindi, per celebrare il mio compleanno, sto andando a regalare della frutta ad una persona che senza il mio intervento mi è sembrata eccezionale. Regalerò la frutta e dirò addio al mio meccanisno, o almeno ci proverò, e forse dovrò dire addio anche a questa persona.

Non posso non pensare a Nasos Vaghenàs:

"La morte ogni tanto dice: per fortuna siamo arrivati fin qui.
E tira fuoriun fazzoletto sporco e si asciuga.
Dalla tasca le cado una banconota.
La trovaun bambino e si compra i dolci.
La trova una ragazza e si compra un vestito.
La trova un pazzo e si compra il cielo.
La trova un saggio e la ridà alla morte."

Sono anni che ci sbatto il muso. E solo ora, dopo anni in cui istintivamente avrei agito da pazzo, lo stomaco mi porta ad agire da saggio, senza sapere ancora bene perchè.

In bocca al lupo Daph.