30 nov 2007

Non voglio perdere la meraviglia

“Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. Quando guardi a lungo nell'abisso, anche l'abisso guarda dentro di te.”

(F. W. Nietzsche)

Può sembrare scontato. Almeno a me sembrava così.
Piove e sei triste e allora credi che stia piovendo anche dentro di te.
Passi del tempo con persone nere, abissi incartati da gabbiani ed è tempo contingente, tempo che avresti passato altrimenti e, dopo un po’, senti qualcosa che brucia sulla pelle. E non capisci.

Ti sembra che la loro oscurità ti sia rimasta appiccicata. Come una specie di catrame che ti ha sporcato il palmo quando gli hai stretto la mano. Non è possibile, ti dici. E confondi la loro macchia con la tua, come se fosse transitiva, come se fosse naturale.
Però la pelle ti brucia e tu non lo sopporti. La doccia dura un minuto o anni, dipende dall’intensità e dalla durata dell’esposizione. Non è questo il punto.

E’ un fatto ancestrale. Come si dice… è una questione di qualità o una formalità. Ogni volta, ho dubitato. Ogni volta ho temuto troppo o troppo poco. Che la macchia dell’altro fosse anche la mia, che mi appartenesse per il solo fatto di riconoscerla. E giù ad arrovellarmi, su quanto sono stata cieca, su quanto sono stat sorda, su come ho fatto a non capire che se il male mi mostra i denti nell’esercizio del potere, in quell’universo non è sempre vero che ci sono anche io. Non si tratta di un’opzione. Non è il frutto di una scelta. Non è. Sono stata una funzione in un delirio di finzione.

Ho imparato che tutti nella vita abbiamo indossato o ci capiterà di indossare delle maschere ma che al di sotto di queste, non sempre c’è una “faccia”. Per alcuni la maschera mutevole all’occasione è la faccia.

Quelli che ne hanno fatto un mestiere hanno una grande responsabilità.
Gli attori affidano al proprio volto la leggibilità per il pubblico delle emozioni del personaggio. Una volta ho letto da qualche parte che nelle scuole di recitazione insegnano agli allievi ad osservare attentamente il loro volto durante l’interpretazione allo scopo di ottenere una totale adesione al personaggio interpretato. Bisogna imporsi la faccia del ruolo, anche nel più piccolo gesto, in ogni respiro. E’ come se…diventassero acqua che accoglie sempre e solo la forma di ciò che la contiene, come se l’attore fosse una specie si adesivo capace di catturare, ripetere, l’anima di chi deve impersonare. E’ buffo, è…innaturale, è impossibile. E’ un mostro.

Ma perché faccio questo sproloquio? Diverse persone che conosco mi hanno chiesto se facessi recitazione. Una addirittura è arrivata a dirmi – Saresti perfetta, tu devi fare teatro, ma io ne sarei geloso.
E io? Claro…giù a tafazzarmi di domande. Un mare di domande in tempesta attorno ad un nucleo solido che non si smuove mai. Espressività. Sì, ma la mia, non quella dell’altro. Eppure sfido chiunque a negare di aver incontrato qualcuno che si plasmasse alle nostre abitudini, ai nostri gusti, ai nostri modi di fare. E ancora, da adolescenti non avete mai fatto qualcosa sapendo di farla solo per compiacere un’altra persona? Più raro incontrare chi ci sente così nel profondo da aderire superficialmente a qualcosa che ci confonde, perché ci sembra un miracolo. Il miracolo del riconoscimento. Ma questa è un’altra storia.

Le maschere si spaccano e non fanno male. Anzi, è una liberazione. Scruto l’abisso e l’abisso scruta me – io non ho paura. Il veleno dei mostri dall’abisso non mi ha contagiata. Se l’ ha fatto, lode al mio sistema immunitario o alla mia incoscienza che nonostante tutto mi fanno stare con le mani aperte davanti al miracolo della vita, sempre. Per me è stato così. Io non riesco a perdere la meraviglia. Il catrame resta un po’ sul palmo della mano…poi se ne va. Stimola le cellule ad indurire il derma, a renderlo più impenetrabile senza intaccare la permeabilità. Il catrame non mi lascia aloni nel profondo. Lascio che i miei pori respirino e sudino. Non riesco e non voglio pagare il prezzo di indossare i guanti, sarebbe troppo alto. Nelle mani, sulla pelle, quello che perderei – l’emozione, l’ispirazione, la gioia di essere – sarebbe davvero troppo rispetto a quello che risparmierei. E’ così che si diventa il mostro dal quale si fugge. Copiandone le mosse, indossandone la maschera, giocando la partita con le sue regole. Ma quelle regole non sono le mie e non c’è partita se non condividi le regole del gioco. Le mie regole…mi piacciono di più. Rischiano di più. Spaventano di più. Ma le mie regole sono le uniche con le quali valga la pena di giocare. Regole…più che regole, direi necessità. Vivere. Scegliere. Non barare. Lealtà per lealtà. Amore per amore. Coraggio per coraggio. Reciprocità.

E su queste per istinto e per natura non ho mai avuto dubbi. Ho imparato a credermi.
Altra necessità. Proteggere. Ma proteggere la meraviglia, questo lo sto ancora imparando e lo imparo lentamente.

14 nov 2007

Usi a picchiar mentendo

Carolina aveva 3 anni quando decise che voleva crescere.
Era una bambina timida che amava colorare. Ed era curiosa di tutto.
Non aveva compagne di giochi. Stava sempre con il mento all’insù sforzandosi di guardare in volto le persone che voleva bene. La nonna. Il nonno. La mamma. Il papà.
Si sentiva una pulce in un mondo di titani.

Lo sai che i papaveri son alti, alti, alti , sei nata paperina: che cosa ci vuoi far?

Carolina amava fantasticare sulla forma delle nuvole e delle montagne.
Un giorno crescerò e anche io toccherò le nuvole. Ci monterò sopra e volerò come i gabbiani.
E il gioco preferito di Carolina era saltare sul lettone di sua nonna.
Il momento della spinta, l’abbandono del cadere sulle proprie gambe e ridarsi la spinta ancora una volta. Delle gran sudate e poi il rimbrotto della nonna – Carolina scendi dal letto che ti fai male!

Carolina montava su una sedia per imitare sua nonna quando lavava i piatti.
Carolina sorride tra le braccia di una cugina di qualche anno più grande che le fa sentire più vicino alla mano della mamma che dormiva sempre o era sempre in treno.

Una volta Carolina aveva anche il papà – un signore altissimo con i baffi che ascoltava sempre la radio e odorava di fumo e di vino.
Poi, i baffi sparirono ed il papà di Carolina diventò un gigante sempre arrabbiato che non sorrideva mai e urlava come se la bambina, dal mondo dei paperini, non avesse potuto sentire la sua voce altrimenti.

E urlava talmente forte che Carolina tremava.
Io me ne vado per colpa tua e sentiva sbattere la porta. Io muoio per colpa tua e poi non sentiva più nulla.

E Carolina aveva talmente paura che aveva iniziato a credere che se non avesse fatto nulla nessuno se ne sarebbe andato e nessuno sarebbe morto. Ma anche a stare immobile Carolina non aveva risolto un gran che. Perché quel signore altissimo senza i baffi, aveva preso a strattonarla come un pupazzo e la faceva muovere. A destra. A sinistra. In alto. In basso. In basso. In basso. In basso.
E Carolina come un pupazzo si piega a destra e poi a sinistra. Vola in alto e cade per terra. E come un pupazzo non respira. Come un pupazzo lascia andare il peso in direzione della forza per ridurre l’attrito.

Sì. Carolina a tre anni decide di crescere e decide che sarà più altissima di quel signore altissimo e avrà le ali e sotto ci metterà la sua mamma ed il suo fratellino.

Carolina a 13 anni è la più alta della scuola.
Porta il 41 e picchia i maschi che prendono in giro il suo fratellino.
Era una bambina timida che amava colorare. Ed aveva paura di tutto.
Non aveva compagne di giochi. Stava sempre con il mento all’ingiù sforzandosi di non guardare in volto le persone di cui aveva paura. La nonna. Il nonno. La mamma. Il papà.
Si sentiva una pulce in un mondo di titani.

E con le mani amore per le mani ti prenderò
senza dire parole nel mio cuore ti porterò
E non avrò paura se non sarò bella come vuoi tu
Ma voleremo in cielo in carne ed ossa
Non torneremo più

Carolina stava sempre nella sua stanza a leggere e a studiare.
Carolina amava fantasticare sulle stelle e sul mare.
Un giorno morirò e anche io toccherò le stelle. Ci guarderò dentro e non sarà poi così buio.
E tra un libro e l’altro, Carolina teneva nascosto un piccolo caleidoscopio ed al tramonto si metteva a guadarci dentro e piangeva e piangeva e piangeva.
Ci guardava così tanto che il mondo fuori, dopo, sembrava ancora più grigio.

Ma Carolina era curiosa di tutto. Voleva parlare con le sue compagne di scuola ma non ci riusciva.
Chiedeva loro di firmarle il suo diario ma le dicevano di no.
Sei antipatica. Non ridi mai. Perché non ridi?
Sei più grande di noi. Non puoi giocare con noi.
E intanto il tempo passava e Carolina non smetteva di crescere.

E’ Carnevale, Carolina non puoi uscire – sei troppo grande per travestirti, il costume lo mettono i bambini!
E’ Natale, Carolina non puoi uscire – sei troppo piccola per uscire da sola, ubbidisci!
E’ il Primo Maggio, Carolina non puoi uscire – sei indecente con questa maglia, copriti o gesù muore.

Carolina si guarda allo specchio e non capisce. Somiglia di più alle signore più grandi che alle sue compagne di scuola.
Carolina si chiede perché tutti hanno paura. Tutti eccetto il signore senza baffi che anche se Carolina ha imparato bene a non respirare, non aveva mai cessato di strattonarla come un pupazzo e la faceva piangere. A destra. Rosso. A sinistra. Viola. In alto. Contro una parete. In basso. In basso. In basso. In basso.

E Carolina come un pupazzo di pietra si piega a destra e poi a sinistra. Rosso. Vola in alto e cade per terra. Rosso. E come un pupazzo di pietra non respira. Come un pupazzo di pietra lascia andare il peso in direzione della forza per ridurre l’attrito. Rosso.

A 13 anni Carolina decide che se stelle non arrivano le andrà a prendere lei stessa.
Le piacevano i miti dell’antica Grecia. Leggeva e rileggeva la favola di Apollo e Dafne, del dio sole che si era perdutamente innamorato della Ninfa Dafne, figlia del dio fluviale Penèo. Apollo, il bellissimo dio, non era corrisposto dalla Ninfa ed infuriato, non le dava pace e Dafne, sfinita dalle fughe per sottrarsi all’insistente Apollo, chiese implorando l’aiuto di Penèo, che impietosito decise d’aiutare la figlia trasformandola in alloro.

Ha appena finito di pronunciare queste parole che un pesante torpore le invade le membra:
il morbido petto è racchiuso in una sottile corteccia;
i capelli si allungano fino a diventare fronde, le braccia rami;
i suoi piedi, prima così veloci, sono inceppati da inerti radici;
il viso diviene la cima dell’albero.
Solo il suo splendore le resta.
Ma anche così Apollo l’ama e ponendo la mano sul tronco sente battere ancora il suo cuore sotto la corteccia appena spuntata, stringendo fra le braccia i rami come se fossero membra dell’amata, copre di baci la pianta. La pianta tuttavia cerca di evitare quei baci. Allora il dio così parla:
"Poiché non puoi essere la mia consorte, ebbene sarai il mio albero. La mia chioma, la mia cetra, la mia faretra saranno sempre inghirlandate di te, o alloro!"

Carolina pensava che non c’era salvezza. Che se avesse letto prima di Apollo e Dafne lo avrebbe capito subito. Di notte Carolina entra in cucina. Apre il cassetto e tira fuori la mezzaluna.

Senza respirare va in bagno.
Senza respirare guarda la mezzaluna nella mano destra. Poi il polso sinistro.
Poi guarda le stelle di gennaio. Tira un fiato come se soffiasse in un flauto.

Carolina ha paura. Carolina ha solo la paura e la porta delle stelle.
Come un pupazzo di vetro, si strattona da destro verso sinistra, da sinistra verso destra. Rosso.
La mezzaluna cade. Le stelle sono più vicine.

Caldo. Rosso. Caldo lungo le mani. Aghi nei polsi.
Carolina torna a letto. Carolina non respirare.
Carolina non ti svegliare.

Carolina non conta gli anni. Carolina non dà importanza al tempo, ai numeri, alle parole.
Carolina mille cicatrici ed un cuore sacro da proteggere che sa prendere e sa dare.

Carolina si sente una donna in mezzo ad una folla di maschere.

A chi vuole bendarmi gli occhi, dice, sarà più irriverente indicare le stelle.

A chi vuole strattonarmi come un pupazzo, sarà come suonare al pianoforte una musica che inizia piano e finirà per far sanguinare le orecchie.

A chi mi parlerà per vuotarsi le viscere sarà calda, solida e più forte l'onda che confinerà la mia sostanza.


13 nov 2007

Bologna 22 Ottobre 2003

Una lettera al più caro amico di 4 anni fa. Quattro giri intorno al sole e una parte di me che non esiste più, perchè ha cessato di sanguinare e ha ripreso a respirare. Una parte di me che merita rispetto e voglio abbracciare. Sempre.

Carissimo,
proprio non ce la faccio ad attendere fino a venerdì. Sento di doverti dire ora le cose più impellenti, nella speranza che non restino troppo nero su bianco, o che superino il muro di dover usare la voce per dirle.
Non lo so.

Ti ho detto che ho trovato una gran bella casa. Vuota. Non è ancora finita. Sembra la possibilità di un'altra vita, il dolore di una nuova nuova dentizione a 26 anni. Piuttosto spiazzante la possibilità e la sensazione oramai quasi dimenticate di ripartire da zero liberi, leggeri, senza costrizioni, senza doversi adattare all'ennesimo compromesso, senza doversi forzare in compagnie che non ci appartengono e finiscono con il riuscire a distorcere anche le nostre solitudini.

è tutta bianca la mia nuova casa: con una grandissima finestra che dà sui tetti rossi di Bologna, in un palazzo che nasconde un giardino segreto, con un pavimento di legno marrone caldo e profumato.

Sembra Natale....
Sembra quando le parole arrivavano a fiumi senza poterle interrompere o quando la voce scoppiava in gola pur di poter uscire, e se era costretta a tacere mi si scioglieva il sangue nelle vene, e pensavo che la mia voce era tutto quello che avevo.
.... non ne ho più tantissima, e una buona metà devio impiegarla per le comunicazioni di servizio. Mi restano le mani, gli occhi, il fiato, lo stomaco.

Non so questo giovedì ritornerò al mio piccolo circolo degli orrori e non so se se ho fatto bene a ricominciare a frequentarlo.
Andare lì è un pò come vedersi in uno specchio che restituisce un'immagine agli ultravioletti dei relitti, delle funi, delle cicatrici, delle bare dimanticate negli armadi.

Ci si sente vecchi di tanti anni di più dopo e non sai come, non sai quando è che hai chiuso gli occhi e la tua vita è cambiata senza che te accorgessi, e hai chiamato impegno un falso opportunismo, e amore una malattia.

Dunque, ho il lavoro, e il vortice nel quale preferisco imparare a sopravvivere piuttosto che vegetare ma che mi ha tolto la voce, e tiene il fiato in gola legato ad istante interminabile di attesa, di muri che devono cadere, di pregiudizi che non cadranno mai, di limiti che devo spingere. Ecco.

Come ci si sente dentro. Sola fuori e dentro, senza voce.
Nemmeno stonata: chi stona canta, chi stona conta come tutto il coro di vili pecore che fingono d conoscere le parole o le sanno o le insegnano, mentre io sono incapace di dire la metà dei miei versi, e vado a prendermi il mio futuro di velenoso silenzio in punta di piedi.

Ivan, io non lo so se dove arriva la sopportazione di un amico perchè non ho mai chiesto. Lo sai che ho una grande difficoltà a parlare dei miei problemi e che generalmente, da buona elefantessa quale sono, preferisco andare a morire da sola le mie morti senza confermarmi per quello che sono anche rispetto agli amici - umana, replicabile, forse colpevole.

Una volta mi hai detto che gioco a nascondermi dietro le parole. Spero che stavolta capirai che, quando le parole si nascondono dietro di me, restano le mie mani storpiette che provano a farne una treccia, dei binari di acciaio su cui camminano le vicende di questa vita, sussurranti e urlanti nell'unica voce eterna, il vento.

12 nov 2007

Das Unheimliche, o Come ho smesso di preoccuparmi e scelto di stare con le mie viscere

Un terremoto sta facendo ballare la terra sotto i miei piedi.
Come mi sento...Mi ritorna in mente una lezione di Estetica all'università, tanti anni fa.
Un professore capace di farti sentire fino al midollo ciò di cui stava parlando. Sì, fu una lezione bellissima - se non altro la ricordo dopo circa 7 anni.

“Il perturbante è una sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da tempo. Un rimosso che ci è da sempre familiare”

Non lo ricordavo più da Freud. Ma sono andata a cercarlo, senza nemmeno sapere perché. L’istinto, la memoria, la pancia mi hanno portato sul motore di ricerca a comporre “sandman”…e non chiedetemi perché.
Da Hoffmann a Freud, passando per Kubrik, la corsa in taxi è stata breve... e spaventosa.

"il perturbante che si sperimenta direttamente si verifica quando complessi infantili rimossi sono richiamati in vita da un'impressione o quando convinzioni primitive superate sembrano aver trovato una nuova convalida [...]; al fine della nascita del sentimento perturbante è necessario [...] un dilemma relativo alle possibilità che le convinzioni superate e ormai ritenute indegne di fede si rivelino, nonostante tutto, rispondenti alla realtà”. (Freud: 1919)

Mi sta tornando fuori dalle viscere qualcosa che temo sia così.
Ho paura. Ho una paura fottuta.
Ma ci sto dentro. Non ho nessuno intenzione di mollare.
Mi prendo i miei spazi e stringo la mano alla paura.
Stavolta non mi toglierai il respiro.
Ti presento e mi fai male. Ma la spinta alla Libertà è più forte.

Certo, qualcuno potrebbe dire che è molto più facile fare del male che scambiarsi del bene.
Ovvio, ma questa è acqua passata.
Questo sapore lo conosco già e non mi piace. E’ troppo amaro.

Quello che non conosco – o meglio – quello che conosco poco e mi fa vacillare per la paura di non saperlo prendere, ce l’ho davanti.
Ed io (non) ho paura di me. Di te. Non mi fa paura il mio silenzio. Il tuo.
Non mi fa paura il mio dolore. Il tuo.

Resto nel grembo. Resto nel guscio a sentire i battiti del mio cuore.
Non ha importanza nient’altro.

Questo coniglio bianco sta passando sotto il mio naso per svelare un segreto di Libertà. Quello che già sedimenta in me da mesi. Ciò che già possiedo e non ho mai osato agire.
Ma io sto con le mie viscere.

Tre notti che dormo male. Mi dimeno come una furia. All’alba più stanca di prima. Il perturbante che riemerge. Sogni confusi di acque torpide e immobilità e impotenza....Ecco, se adesso mi chiedete perchè come in trance ho cercato sandman lo saprei anche spiegare....

Ma io sto nelle mie viscere. E sia quello che deve essere.
Un’intera vita nella gabbia. Di vedermi con gli occhi con cui mi hanno vista gli altri. Di rabbia. Di disperazione silente. Di mutilazione.

E mai conme adesso, riconosco cosa significa varcare quella cella.

Sì, io sto nelle mie viscere. La rabbia e la paura chiedono servi.
La dimensione della mia libertà è nel coraggio di restare all’ascolto del mio cuore.

The Look of Love

Diana era in ritardo. Dafne l’aveva chiamata al telefono quasi subito dopo il lavoro, ma Diana era così, veniva quando le pareva.
E, come sempre, era impeccabile. I tacchi su cui dondolava decisa. La severa alternanza di grigio e nero nell’abbigliamento rigoroso. Il trucco essenziale – nero anche quello – solo rimmel, nota Dafne, che provava ad immaginarla senza quel tratto ebano. Si chiedeva come sarebbero stati gli occhi di Diana privi di quell’ evidenziatore da primo piano che ne faceva due fanali che divoravano il viso.

Un bacio di misura. Affettuoso ma a debita distanza. Si siede sulla sedia bianca, Diana. Inclina leggermente la testa verso destra scoprendo un collo nervoso, i capelli ordinati in uno chignon impeccabile mentre si accende una Cartier con un accendino di metallo color canna di fucile, anche quello coordinato con l’abbigliamento. Un altro feticcio della sua implacabilità.

“Ti faccio un caffè?” Dafne aveva passato la giornata a casa. Indossa la tuta d’ordinanza da week end. Pantalone blu. Felpa verde. La stessa che indossava ai tempi della scuola. Aveva cercato di fare un po’ d’ordine, non solo in superficie, e stirare le camicie per la settimana mentre sussurra a bassa voce un pezzo di Sinatra. Come sei antica, l’avrebbe apostrofata Diana.

“Volentieri, sono solo al quarto oggi e per venire da te ho rimandato una riunione” sottolineò con una nuvola di fumo.
“Lavori anche questo sabato?” chiede sorpresa Dafne.
“Io lavoro sempre, mia cara, non vedo come sia possibile evitarlo, del resto. Il mio è un lavoro di responsabilità. Non oso pensare cosa accadrebbe se un giorno non andassi in ufficio. Ti ricordi il mese scorso? Quella maledetta influenza? Nel giro di una sola ora, almeno una trentina di messaggi in segreteria. Sono indispensabile agli azionisti”
“E gli azionisti sono indispensabili a te” inserisce ironica Dafne.

“Perché, tu non lavoravi oggi?”
“Ho provato, ma non ho combinato niente di buono. Lo sai com’è, quando non è giornata non è giornata. E per fortuna, non è quasi mai giornata nei week end” prova ad abbozzare Dafne, con un mezzo sorriso.
Diana la guarda impassibile. Aspetta altre parole.
“Beh, comunque grazie di essere venuta...” velocemente tira ad indovinare. E poi “Metto su un po’ di musica, ti va?”

Non attende risposta. Accende il fornello per il caffé. L’indice precorre la pila di cd di fianco allo stereo in cucina. Si ferma su Diana Krall. Sì, qualcosa di morbido, pensa Dafne.
La musica si diffonde lentamente. Le si addice questo jazz, pensa Dafne, mentre osserva Diana abbassare gli occhi in cerca di un rifugio in ogni direzione.
“La tua solita musica di antiquariato?” esordisce sprezzante l’amica.
Dafne sorride. “Se non ti piace, posso cambiarla…aspetta qualche minuto però prima di dire che non ti piace.”

Era sempre così con la musica. Diana ascoltava poco. La musica non le piaceva. Non le piaceva nemmeno il silenzio. Ma più di tutto, non le piaceva non essere informata.
Diana, infatti, era costantemente aggiornata su tutto.
“Sei peggio di Wikipedia” la prendeva in giro Dafne. Diana leggeva i best seller che riempivano le classifiche sui settimanali. Acquistava regolarmente le nuove uscite alle Messaggerie Musicali. Conosceva molta più musica ed autori di quanti Dafne potesse immaginare. Ma non riascoltava mai lo stesso cd più di una volta. Non leggeva mai lo stesso libro più di una volta. Oltre che, naturalmente, leggere tutti i giorni la rassegna stampa per la quale aveva preteso ed istruito appositamente una stagista.

“Quindi, cosa c’è tesoro di tanto importante? Mi sono preoccupata per te, sai, quando mi ha telefonata..”
“Ah….ma no, niente di grave…è che…volevo sentire come stavi, raccontarti un po’ di cose…” imbastisce Dafne mentre versa il caffé in due tazzine di vetro, cercando di ricordare cosa fosse acceduto quando l’aveva chiamata.
Con Diana era sempre così. Con Dafne era sempre così. Un nuovo traguardo o un incontro per la prima, un sogno o un’emozione incontenibile per la seconda, ed entrambe sentivano l’urgenza di ritrovarsi l’una di fronte all’altra.
Ma i sogni e le emozioni sono come le onde. Arrivano e svaniscono. Provi ad afferrarle e ti restano solo le mani bagnate che sanno di sale. Poi il sale asciuga l’acqua. E le mani ti restano come la superficie della luna. Con un sottile tatuaggio di crateri cristallini che scivolano via senza che tu te ne accorga, pensa Dafne.

“Ho fatto un sogno stanotte” dice Dafne “ero in un agriturismo, con Dimitri. C’eri anche tu. Anzi, credo di essere stata lì per te. C’era uno dei tuoi super meeting ma finivi presto e dicevi che dopo si andava al mare con gli altri. E mentre tu eri in riunione io e Dimitri facevamo un giro. Poi il cielo si copre di nuvole e c’è un sacco di gente che comincia a scappare lungo i corridoi, lungo le scale. Ci affacciamo alla vetrata dell’agriturismo e vediamo arrivare degli elicotteri. Da basso c’erano dei ragazzi, era una specie di manifestazione…tipo uno sciopero…sai. Quei ragazzi, agitavano delle palme, degli ulivi, ma che cosa stupida, insomma, delle robe così.
E all’improvviso, da quegli elicotteri comincia ad arrivare giù dell’acqua e del fumo per disperdere i manifestanti..”
Diana ascolta inespressiva. Accende un’altra sigaretta.
“E poi” continua Dafne, raccogliendosi lentamente i capelli con un elastico, “improvvisamente siamo al mare. Il cielo è ancora coperto. L’acqua di metallo, ma calda. C’erano le alghe, ma io e Dimitri facciamo il bagno lo stesso. Ti vedo arrivare…ah, e c’era anche la tua collega, come si chiama, la bionda con gli occhiali a farfalla…”

“Ma chi, la Trepagnetti?” chiede Diana con sospetto.
“ Sì, sì proprio lei!” esulta Dafne
“ E’ una delle mie segretarie, Dafne, non una collega” la corregge Diana.
“Ah, non me lo ricordavo…comunque, sì, arrivava lei e pensavo ecco, adesso arriva anche Diana, chissà se ha saputo qualcosa di tutto quello che è successo stamattina…e poi tu arrivavi e mi vedevi, ma andavi dall’altra parte della spiaggia.. e non ricordo più, non credo che riuscissimo a parlare..che sogno strano, eh?”

Dafne non sa cosa aggiungere. Non sa nemmeno perché ha raccontato quel sogno.

La solita sconclusionata, pensa Diana. Per questo ha un lavoro precario. La vorrei vedere in banca, a reggere le onde d’urto del mercato, dei clienti, degli azionisti. Non resisterebbe nemmeno un minuto. Nemmeno al telefono. Perché lei lavora con la musica. E come potrebbe reggere? Fa la pubblicitaria – ma che lavoro inutile…la sua cioccolata venderebbe da sola senza le idiozie che scrive. No… sei una cara amica Dafne – tu hai bisogno di me- ma non saresti mai nemmeno una segretaria nel mio ufficio. Non hai nemmeno un’idea di cosa siano l’efficienza e la precisione.

“Sempre fervida la tua fantasia..” sostiene Diana “potresti usarla come idea per il tuo lavoro…”

“Ah” la interrompe Dafne. Si avvicina allo stereo, alza il volume. Diana Krall canta un pezzo di Sinatra, lo stesso che canticchiava silenziosa alla mattina, mentre stirava le sue camicie colorate. “Senti che bella questa, te la ricordi?”
“Certo” risponde Diana. Non ha idea di chi sia questa Cral – si scrive così, come le associazioni dopolavoristiche? Né di cosa stia cantando ma è sicura di averlo già ascoltato, non può non averlo già ascoltato almeno una volta.

“E…con Dimitri? Come vanno le cose, ancora a discutere del sesso degli angeli?”
Dafne abbassa lo sguardo. Poi mette i suoi occhi in quelli di Dafne. Come sono neri, come sono profondi, non vedo niente. Si pente un istante dopo. Ecco, io non vedo niente e lei ha già visto tutto. Tutto quello che le basta vedere. Sa già tutto.

“Come va…come sempre… E’ in Giappone, lo sai? Sta girando una serie di spot per una multinazionale…E’ partito lo scorso giovedì…ci siamo sentiti, è molto contento..ha detto che la prossima volta, avendo un po’ di tempo per organizzarsi meglio, andremo insieme!”
“La prossima volta? Bene..era ora…se non altro non ti ricoprirà di fiori come al solito…”

Parla sorridendo – quel sorriso implacabile – e indica il vaso stracolmo di orchidee in bella mostra sulla mensola.
“Ah, quelle…sì, visto che belle? Le hanno consegnate ieri sera, vengono da Tokyo”
E Dafne guarda quei miracoli delicati. I petali – una geometria perfetta - bianchi, orgogliosamente macchiati di cremisi e indaco, macchie e striature che facevano di quelle creature vegetali un’opera d’arte perfetta.

“Sì, sono di moda adesso…” replica Diana “ Ma in casa non le terrei mai, sai com’è…io a casa non ci sono, con il lavoro che faccio è già tanto che la mattina sappia in quale città mi sto svegliando. Le tue orchidee morirebbero nel giro di pochi giorni…” Tollero solo le calle, Dafne, dovresti saperlo. E infatti non sono fiori. L’ho letto su Donne e Botanica Hi-Tech. Le calle sono foglie. Appartengono al fusto. Alla pianta. Sono così essenziali. Non odorano nemmeno. Che fronzoli inutili, i fiori.

“Non è vero…le orchidee sono molto longeve..”
“Sono fiori, Dafne.” E spegne la sigaretta piantandole gli occhi negli occhi.

Con una impercettibile rotazione del capo, porta in avanti il mento, quasi a farsi avanti – quel viso lungo, affilato, mediorientale – quasi un morso.
Dafne non si muove. Gli occhi mordono. Pensa. I fiori, mordono.
“Diana, lo so che Dimitri non ti piace” riconosce Dafne.
“Non deve mica piacere a me” sorride l’amica con distacco.

“Non dico questo. Dico che lo so, lo sappiamo, che ogni volta che mi chiedi di Dimitri, trovi sempre una ragione per biasimarlo…d’accordo, non deve piacerti per forza, ma dopo tre anni…potresti almeno ammettere che forse ti sei sbagliata sul suo conto..”
“Non c’entra Dimitri…” la rassicura Diana con il sorriso “E’ che io e te siamo diverse. Io i maschi li uso, è vero, prendo quel poco che si può prendere da loro di buono e penso a me, alla mia vita, al mio lavoro. Tu…tu te ne stai lì a credere che dividersi la vita con qualcuno sia normale. Tutto qua. Non saremmo così amiche altrimenti, no, se non fossimo così diverse?Io sono il tuo terzo occhio e tu sei il mio”

Dafne si agita. Gira e rigira tra le dita la chiave del mondo, una piccola chiave d’argento adornata da una mongolfiera che ha trovato sul pavimento mentre riordinava alla mattina – un ciondolo appeso ad un bracciale, forse, uno dei suoi? Di qualcuna che era passata da lì?

“Io…non so…voglio dire, sì, siamo diverse, ma tu non ti dai nemmeno il tempo di conoscerli gli uomini che frequenti…li pianti dopo quanto, due, tre settimane?”

“Andiamo Dafne, non diciamo assurdità..” si volta di lato Diana, contraendo la mascella.

“Capitan Voletti non era mica uno stupido, scusa, era così gentile, aveva anche già un figlio…e tu lo vuoi un figlio no? Eri a posto!”
“Ma chi, il pilota?”
“Sì, quello che ti ha portata a Vienna, al concerto di Natale..”
“Ti ricordo che Capitan Voletti non faceva altro che parlare di aerei, era così pesante.. e poi, rozzo. Mi avrà anche portato al concerto di Vienna, ma l’hotel sembrava la casa di mia zia Domitilla. Senza un minimo di personalità. Nemmeno l’idromassaggio in camera! Ma per favore, non aveva capito con chi aveva a che fare…”

“E va bene, tu sei più sofisticata..ma allora, l’onorevole Clementio? Lui era così colto, era così….avvocato…Ti sei stufata anche di lui!”
“Ti credo! Mastellucci non perdeva occasione di fare processi anche al ristorante…non sai che imbarazzo. Alla cena di inaugurazione della Loggia dei Togavolponi ha sindacato mezz’ora sulla selezione dei vini con un sommelier. Non mi vedeva nemmeno, io che avevo sudato 5 settimane per entrare in quell’abito da sera Chanel 42.”
“Sì, ma quando ci parlavi di diritto commerciale ti piaceva e come! E poi, sono venuta con te a comprare quel vestito: eri una favola, sembravi un’attrice..” protesta Dafne.
“Appunto, l’onorevole, credeva di potermi insegnare il diritto ed espormi come un trofeo. Tu cosa avresti fatto al mio posto, scusa?”

Dafne ammise con lo sguardo la conseguenza logica. Voleva aggiungere “Io non sarei mai uscita con uno come l’onorevole Clementio – si vedeva lontano un miglio, era uno specchio. Rifletteva quello che volevi vedere. Ma Dafne tace. Sta innervosendo Diana e Diana ha bisogno di parlare.

“Anche Telemaco Sanders, te lo ricordi? Sembrava così sensibile, così…intellettuale..”
“Telemaco Sanders? No…non me lo ricordo..”
“Dai, rientravo da quella riunione a Monaco. In aereo. Quello del colpo di fulmine….ma come non te lo ricordi? Ti ho chiamata alle tre di notte per raccontarti tutto.”

Gli occhi di Dafne, occhi d’acqua, sempre lucidi, sempre in bilico tra mare e orizzonte, testimoniano una vaga incertezza.
“Telemaco è quel tipo che insegna all’università. Semiotica. L’assistente del Professor Fragore. Io ho detto qualcosa di difficile, giusto per metterlo alla prova, e lui subito ‘Io ti parlo del desiderio e tu dell’oggetto mancante’….”Diana solleva le mani. Entrambi gli indici puntati come antenne a rimproverare la memoria corta di Dafne “Ma dai, Lacan, no? E’ ovvio, ci siamo presi subito con la testa!”

“Ah…” finge di ricordare Dafne “ ed eri tu quella che lo metteva alla prova?”

Ricorda solo qualcosa di quella telefonata notturna. E non erano le parole di Diana. Erano i suoi pensieri. Eccoci, un’altra vittima. Se riesce a impolpettarlo con le sue chiacchiere, lo accalappierà come si fa con i cani. E se lui è più debole o più furbo ed abbaia a comando, potrebbe anche andarci a cena. Ma lei ci riesce. Diana ci riesce sempre. Del resto, è così affascinante. Ci gioca un po’, li mette sul palco a recitare un monologo solo per lei, poi quando la distanza si accorcerà troppo, si stuferà e lo abbandonerà in autostrada. Come un cane. Ma come fa a non vedere?

“E cosa aveva che non andava?”
Gli occhi di Diana diventano ancora più neri. “La testa. Cioè, un gran cervello, intendiamoci, ma Telemaco aveva solo quello. Magrolino, minuto, perfino più piccolo di me…ma ci vedevi insieme?”

Diana accende la terza sigaretta.
“Non c’è niente da fare. E’ il mio destino. Lo porto nel nome, no? Diana come la dea della caccia” ride sprezzante. “ O la dea della guerra. Partorita dalla testa di Giove…ma che ne vuoi sapere, tu sei così…così….naive. Frequenti da tre anni uno più spiantato di te, non sai nemmeno dire perché state insieme, non hai idea di cosa significhi la concretezza!”

“Diana” Dafne avvicina la sedia a quella dell’amica. Si siede e sporgendosi verso di lei le prende una mano.”Io ti voglio bene” Sempre perfette le sue mani – la french una volta la settimana, come il parrucchiere, l’estetista, le terme. “Così come sei, davvero.”

Si guardano. Sono una lo specchio dell’altra. Due vite che potevano andare nella stessa direzione e che per una ragione o per l’altra avevano preso pieghe diverse. La variabile incontrollata del mercato, avrebbe diagnosticato Diana. Un gran colpo di culo una volta tanto, avrebbe ammesso Dafne.

Diana ritira la mano. Quel contatto la infastidisce, le sembra un’elemosina . E non le serve la compassione di nessuno. Tanto meno quella di Dafne.

“Certo, lo so.” Retorica e sbrigativa. La stessa inclinazione distante con la quale aveva accettato il caffé. “Ma siamo qui per parlare di te, no? Quindi, cosa dicevi di Dimitri? Quando andrai in Giappone con lui?”

“Non lo so….si è solo detto che prima o poi ci andiamo insieme…”

“Bene” sorride a denti stretti Diana. Con eleganza fa vibrare il bracciale al polso sinistro. Guarda il suo scintillante Baume et Mercier. “Si è fatto tardissimo, ho un appuntamento al Circolo Tantrico Ayurvedico”
Un bacio. Di misurata distanza. La promessa di risentirsi presto.

Dafne chiude la porta. Governa la cucina. Ripone la tazzine nel lavello mentre dalla scale sale il riverbero dei tacchi di Diana. Veloce. Determinato. Senza scuse.

Il caffé. Diana accetta il caffé e l’amore con la stessa voce. Gli stessi occhi.

Si asciuga le mani che non tollerano guanti e guarda le orchidee pensosa.
Il Giappone. Ma ci andrò mai con Dimitri in Giappone? Sono tre giorni che non lo sento. Ho provato a chiamarlo stanotte per il fuso ma non mi ha risposto. Sarà felice? Starà bene? Mi ama ancora?
I miracoli immacolati orgogliosamente striati di colore vibrano alla luce del tramonto che filtra le sue ultime diffrazioni dalla finestra.

Diana Krall smette di suonare.
La radio, sostituendosi al cd urla un pezzo rock.

What if I say that I’m not like the others
What if I say that I’m not just another one
Of your plays
You’re the pretender
What if I say that I’ll never surrender

Dafne sorride. Socchiude gli occhi e sente il calore.
Devo ricordarmi di chiamare Diana più spesso.

9 nov 2007

Lealtà per lealtà, amore per amore, coraggio per coraggio

Oggi è una giornata spenta. Non chiedetemi niente, tanto non avrei le parole. Ho trovato questa lettera. Ha tre anni. Ho deciso di pubblicarla perchè la scrittura, come gli occhi, copre le distanze. L'ho riletta io, 2 volte. E continuo a non adoperare specchi.
Un personale Amarcord che in questo freddo novembre ci sta proprio bene. Almeno mi scalda. Mi da' coraggio. Mi fa sentire meno intorpidita. Numb.

25/o6/ 2004
Lo so che in queste occasioni sono gli ltri che scrivono qualcosa: un pensiero, un augurio, un messaggio d'affetto, ma stavolta sono io che voglio dire qualcosa.
L'ultima volta che seriamente riflettuto su un compleanno, a patto che si possa pensare seriamente ad una cosa del genere - è stato quando ho compiuto 20 anni, nel lontano 1996. Ricordo ancora perfettamnte che studiavo per l'esame di Storia del Giornalismo e delle Comunicazioni di Massa con un occhio sul libro e un altro alle partite di calcio- c'erani gli Europei, ve li ricordate? - e quel giorno, di pomeriggio, due ragazzze conosciute all'università w poi inghiottite dal buio dei venti anni mi vennero a trovare, e mangiammo un pezzo di torta.

La sera, mi feci gli auguri da sola su una pagina del diario. Compiere 20 anni mi sembrava un traguardo: non l'avrei mai detto. Ci ero riuscita a sentire che si prova, che cambia, come ci si sente, e per me è stato vero che 20 era diverso dai 19 del giorno prima.
20 era pieno di aspettative, era una possibiltà, era una dimensione adatta alla portata smisurata dei miei sogni.
Sinceramente adesso ho un pò paura a rileggere quelle pagine, cercare di decifrare quella calligrafia stirata sul foglio, quei segni incisi con tanta forza da sciupare lo spessore omogeneo della carta, quelle righe fitte che non erano mai abbastanza.

Oggi che sono 27 ancora non ho imparato la lezione.
La mia vita è cambiata rispetto a quello che mi aspettavo e mai e poi mai avrei detto che sarei finita dove sono. Neutralmente, intendo.
Chi di voi ama il cinema e si è sparato i molti film con Robert De Niro forse ricorderà Bronx. Un padre ricorda a suo figlio disorientato, piccolo, impaurito che bisogna impegnarsi, crdere, essere tenaci per evitare di sciuparsi, di darsi via ... "TUTTO TALENTO SPRECATO". E voi sapete bene che la goffaggine è il mio più gran talento: dimentico compleanni, bollette, qual è la chiave giusta dal mazzo per aprire il portone di casa - per non dire quando dimentico proprio le chiavi, o il telefono...o la testa!

Ma se c'è una cosa che non ho mai smesso di fare è credere.
Non tanto in me perchè non ne varrebbe la pena, ma nella possibilità che impegnandosi, che lottando, che sudando il cielo diventa più vicino, la paura di vivere si allontana, i pesi e i valori assumono caratteri reali, lontano dalla folla, dal disordine, dal passato.

Mai e poi mai rinuncerei a voi che mi avete aperto un pezzo di cuore - magari non volendo - e, rovistandoci dentro, sempre involontariamente, mi avete messo di fronte a me stessa. Quello che voglio dalla vita me lo chiedo tutte le mattine, e malgrado tutto, non ho mai avuto una risposta. Quello che voglio dalla vita lo voglio così tanto da non rendermene conto eppure lo faccio, cerco di metterlo in pratica nella consapevolezza che non un secondo di questa esistenza mi posso permettere di sprecare, perchè non ne avrò un'altra e perchè sono fortunata, perchè questa vita è mia e milioni di uomini e di donne non sanno neanche che vuol dire poter uscire da una casa che ti ripara dal freddo, avere i soldi per comprarsi il pane ma pure la cioccolata, avere una famiglia che bene o male c'è e ci sarà sempre, almeno dentro il cuore.

E' vero, Emilia ha meno paura.
Emilia lotta coi denti, tiene duro, spreca una mare di energie perchè è ancora un pò goffa e non sa come canalizzarle al meglio , Emilia è una sopravvissuta, e qualcuno di voi lo sa, che quando subisci un danno ti separa un abisso dal resto del mondo. Io sto sulle mie gambe, come una ragazza, come uno zombie, come un soldato, come Iside. E ci sono rimasta in piedi, nonostante tutto, perchè ho creduto e credo che il cielo si possa toccare con un dito.

Ci sono rimasta perchè ho incontrato voi. Ci sono rimasta perchè a scappare dal mondo e dalla vita mi sono solo persa correndo il rischio di non ritrovarmi più, e per ce cosa poi? Per non crescere, per avere paura di meritarmi di felicità, per dare per scontato che quello che avevo mi era dovuto? Io voglio crescere, voglio invecchire, voglio trovare il mio posto in questo mondo assumendomi le mie responsabiltà e inculate del caso, ma niente e nessuno deciderà al posto mio, tanto meno la paura, l'angoscia, le difficoltà, la pigrizia indotta dal fatto di avere avuto il privilegio di nascere nella parte grassa del mondo. Ecco quello che mi mancava a 20 annni: la responsabilità.
E non sto dicendo che ci vado pazza ad arrivare al 20 del mese con lo stipendio che è ridotto a spiccioli, non mi sto autoglorificando per affermare che sono la reincarnazione di Giovanna D'Arco e il mondo fuori sono i cattivi, i superficiali, i vigliacchi. Quello che dico è che vorrei altri 27 anni vissuti così: con tenacia e con ingenuità.
Con la serenità di discernere le cose importanti da quello che non lo sono, la dignità di sentire il polso che batte per amore, per un sogno, per una boccata d'aria chissà dove il prossimo anno. Non voglio avere paura mai più. Non voglio rimpiangere nulla mai più. Quello che ho perduto, non è mai tornato indietro. Quello che ho avuto paura di desiderare ormai è diventato irraggiungibile.

Se vi posso andar bene, la vostra amica è fatta così. E su di me potete sempre contare, lo sapete. Lealtà per lealtà, amore per amore, coraggio per coraggio.
Grazie per il vostro tempo, il vostro coraggio e le lezioni di vita che mi avete dato.
Vi amo
Emilia, l'incallita 27enne"

l'alba 7/11

Freddo.
Era da restare su quella sedia. Avevo trovato la posizione perfetta. Il punto di equilibrio in cui tutti i muscoli si rilassano, e non hai paura. Ero al sicuro. In una maglia che non è la mia. Su una sedia che non mi appartiene. Buffo. Del resto, a mio agio nel precario, come milioni di persone, ho imparato a starci bene. Mi sento soffocare. Ho la nausea. Sto covando qualcosa.

Treno 1
Non sono stata accolta. Altro che. Pugni di minuti frigidi.
Vesti una faccia che stamattina non è la tua e ti fa incazzare.
"Fatti non foste per viver come bruti..." Un manifesto sindacale di qualche anno fa. Ancora te lo ricordi. Io voglio il Sole, ma di che stiamo parlando?
Disprezzo. Rifiuto. Una certa quale aria di superiorità. Vedi di tenerlo bene in mente. Non te lo dimenticare mai. La parole stanno arrivando...che peccato non ci sia stato il tempo per la voce.
Scriverò una email.

Treno 2
Il freddo ti segue mentre scrivi le parole che non sei riuscita a dire. Caldo. Ho bisogno di caldo. Come sto bene quando c'è caldo. E' la mia temperatura naturale. E' la mia temperatura culturale.
Hai avuto le allucinazioni o ieri sera avevi caldo? Adessio è freddo, è così freddo che non ce la fai nemmeno a ricordare.

Quattro zompi nelle stelle
Rientri alla postazione. Rientri alla quotidianità. Non ti fanno domande. Qualcuno ti prepara un caffè e vorresti piangere per la gratitudine. Ho sbagliato a inviare quella mail?
Dice qualcosa della Siberia e del Galles - che sono alla stessa latitudine ma hanno climi diversi. Che in Galles, pioggia e nuvole sono frequenti. E proprio per questo, i contadini sono rimasti scioccati dal vedere, la scorsa estate, tre banani fare dei frutti. È stato un miracolo senza precedenti. Il mio oroscopo prevede qualcosa di simile anche per me. Una fonte di calore molto tenue diventerà tropicale. "Un’influenza che è sempre stata inospitale nei confronti della tua passione diventerà fertile e accogliente. Di conseguenza, anche tu fiorirai come non hai mai fatto prima."
Bello tirarsi su di morale con queste futilità.

Apnea ellenica contemporanea
Bandiera bianca. Mi fa male testa. Bastavano tre parole. Hai scritto una mail lunghissima e complicata. Non andrai ad obiettivo. Ma quale obiettivo? mi è bastato impugnare la penna, stavo anche perdendo il treno. Le parole sono venute fouri così e, Ritsos, non ha forse scritto:

Anche le parole sono vene,
che dentro di esse
scorre sangue;
quando le parole si uniscono
la pelle della carta
s’accende di rosso
come nell’amore
la pelle dell’uomo e della donna.


Rosso. Caldo. Sole. Zucchero. Un giro di basso. Un sorriso. Una mano. Un bicchiere di porto.
Oggi. Un letto candido. Una poesia. Una possibilità. Il caffè caldo e la Nutella.
Basta.

2 nov 2007

L'alba 2/11

L'alba.
Un istante prima della perfezione.
Esci di casa ed il cielo acciaio schiaccia la prospettiva della strada confinata dall'alternarsi di pareti ocra e corallo di case basse, implose, finestre piccole.
La pressione appena sopra la soglia minima che ti consente di stare in piedi.
Hai dormito...ma quanto hai dormito? un'enormità, da togliersi l'orologio dal polso e disinteressarsi della fiamma che lentamente ti consuma la vita.

Che coincidenza. Il treno. Sempre lo stesso. 7.07 AM. Riedizione rivista e corretta autunno 2007, dopo l'offerta lancio invernale. Vicine per temperature le due edizioni, lontane per intervallo di tempo.
Preso nel medesimo dormiveglia.
L'idrovora. Stai attenta all'idrovora.

Cambi a Prato e ti sembra di averci messo un secondo. Non ti piacciono gli occhi dei passeggeri in treno con te. Occhi di fame, occhi senza pace. Piattaforma 7. Mezzo giro su di te. Alta. Forte. Non ti serve stamattina.
Ma qual è il binario?

Arrivi a Bologna e ti senti in un altro mondo.
Ascolto i CSI e leggo Elitis...sì, ma, davvero dovrei pormelo come problema?
Dovrei davvero fare a minuscoli pezzetti ogni ora, ogni minuto, ogni sfumatura?

Certo. La catena. La catena del Valore. Sei tra Vernio e Monzuno e ricerchi la definizione. La riduzione a modello del processo di generazione del valore. Spezzettare, intermediare, aumentare i costi. Mentalizzare. Scindere. Scontattare.
Stavolta dici grazie, anche NO.
Non sto andando a sfracellarmi.
Questo treno ha una stazione che lo aspetta. Non una parete di cemento.

Respiri. Lunghi, profondi, per prendere tutta l'aria che c'è. Un oltraggio alla privazione che hai vissuto.

Occhi neri, occhi ardenti. Te la recitava quando eri al balcone un seminarista ucraino.
Tui gli dicevi strassnje e confondevi tristi con ardenti. Hai begli occhi, finalmente lo puoi vedere. Con un taglio un pò orientale ma niente di particolare.
Quello che c'è dentro, come in tutti gli occhi, è solo di chi li porta.
Oggi portano quell'alba. Quell'istante prima della perfezione.

Sotto la pelle, stai sotto la pelle.
Quando ancora non sai da dove arriva questo caldo, ritorni dentro la tua pelle, sotto la tua pelle e chiami a raccolta il sangue.
La pressione scende. Meno male che hai tirati giù gli occhiali da sole. E hai dello zucchero per fare coercizione.

Ma non vuoi nasconderti. Non hai paura di farti male. Non hai paura di farti bene. Non hai paura di prenderti la vita che ti spetta nonostante l'inculcacta fede nell'autodistruzione.

E vai di corsa in ufficio a cercare un racconto di un anno prima che ti aveva fatto ridere e piangere.

Narciso Cannibale di A.Celestini

"Loredana e Silvio mi raccontano una leggenda del loro paese dove c'era un oste che uccideva i bambini e serviva in tavola degli ottimi fegatini. Una voce avvertì la moglie di scappare coi propri figli sulla montagna di Cantalupo e quando arrivò in cima vide l'osteria sprofondare con tutto il marito. In quel luogo oggi c'è un laghetto che in certe giornate sembra tingersi di rosso per il sangue delle piccole vittime.

E sono molte le fiabe e le leggende in cui si parla di bambini mangiati come Cappuccetto Rosso o Hansel&Gretel. Probabilmente hanno una radice in una pratica che ha una storia piuttosto recente. Juan Gines de Sepulveda a metà del XVI sec parlava propio del cannibalisimo di certi nativi americani per sostenere la loro inferiorità e giustificare il genocidio di cui erano vittime. Eppure nello stesso tempo in Francia alcuni testimoni raccontano di aver visto vendere al mercato cuori umani arrostiti. Forse nasce propio da queste storie e leggende un racconto che il visionario scrittore.

Andrea Pesce ha pubblicato recentemente su una rivista enigmistica un racconto intitolandolo NARCISO CANNIBALE. I suoi protagonisti, Marinella e Nicola vivono sempre in situazioni di completo isolamento e in questo racconto sono chiusi in casa malati di depressione. La mattina si specchiano e le loro immagini riflesse si animano ed escono fuori casa per vivere la vita al posto loro. Vanno in ufficio, pagano le tasse, parcheggiano in divieto di sosta come qualsiasi cittadino rispettabile. Poi la sera tornano a casa. Al rientro, i veri Marinella e Nicola li uccidono e li mangiano.

Dopo qualche mese Marinella inizia una dieta e decide si mangiarsi solo il proprio doppio del martedì che è queello più affascinante perchè il martedì è il giorno del parrucchiere. Il resto delle Marinelle giornaliere se le deve mangiare Nicola. Mangiare se stesso e la propria consorte ogni giorno lo fa ingrassare. E più la sua stazza aumenta più il suo doppio diventa grosso. Così Nicola incomincia a mangiare i cloni di Marinella solo a fine settimana ma quelli aumentano invadendo la loro casa al termine di ogni giornata.

La Marinella del Lunedì ha l'ansia da inizio-settimana per sette giorni di seguito, quella del Mercoledì è invidiosa di quella del Sabato perchè è imprigionta nel giorno in cui ha esaurito l'energia ricaricata nella Domenica precedente...e quella successiva sembra un miraggio. Quella del Giovedì sta sempre in edicola a cercare i Viaggi di Repubblica, quella del giorno successivo mangia solo pesce, quella del Sabato ha addosso l'invidia di tutte perchè si gode due giorni di vita senza lavorare e quella della Domenica si sveglia tardi e non pulisce casa.

Ma una domenica di Ottobre Nicola si mangia per sbaglio anche la moglie vera e resta solo con il suo doppio che ogni giorno salta fuori dallo specchio e va a vivere la sua vita.
La storia finisce con il protagonita superstite che diventa vegetariano. Vegetaraiano nell'alimentazione ma anche nelle amicizie. La sua casa è ogni giorno più affollata di nuovi Nicola stipati ovunque che parlano con carote, peperoni e piante grasse."